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Rispo: «Il nostro cinema subalterno agli Usa? Conta il botteghino»

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La Festa del Cinema di Roma è un pretesto per riparlare della presunta o reale subalternità delle pellicole italiane alle sfarzose produzioni di Hollywood. E non è detto che qualcuno non tiri fuori di nuovo la questione durante la rassegna. A Venezia Pierfrancesco Favino disse senza peli sulla lingua, a proposito del film su Enzo Ferrari: «C’è un tema di appropriazione culturale, non si capisce perché non io, ma attori di questo livello non sono coinvolti in questo genere di film che invece affidano ad attori stranieri lontani dai protagonisti reali delle storie, a cominciare dall’accento esotico». Pupi Avati rincarò la dose: «Ferrari, un modenese, che viene dal Nebraska fa un po’ ridere».

Patrizio Rispo, il volto per antonomasia di “Un posto al Sole, la “soap” italiana più longeva, nella quale interpreta Raffaele Giordano, il portiere di Palazzo Paladini, accetta la conversazione sul tema con lospecialegiornale. Rispo, è come dice Favino o emerge un inevitabile pizzico di invidia professionale?

«Di natura non sono una persona polemica, sono sempre per le discussioni costruttive e infatti la mia reazione alla dichiarazione di Favino è stata solo quella di far notare “affettuosamente” che è il sistema del botteghino che influenza la scelta degli attori, che è sbagliata e speravo che Picchio (il soprannome di Favino, ndr) ne capisse il senso per tutt’altra battaglia. Quello che denuncia Favino avviene da sempre in Italia, specie con gli attori meridionali chiamati solo a fare le maschere regionali: i protagonisti sono interpretati da quella stretta cerchia di attori. E questo avveniva, ad esempio, anche inizialmente nelle scelte di casting di “Un posto al sole” e io lo feci notare con veemenza. I ruoli di laureati, belli, di spessore venivano affidati ad attori arrivati da Roma, i ruoli di “colore” ai napoletani chiamati per somiglianza alla descrizione del ruolo e non solo per capacità artistiche. Quante commedie napoletane abbiamo visto in tv o al cinema riproposte con cast di attori che facevano i napoletani? E lo stesso avveniva nella Piovra dove gli attori siciliani raccoglievano i ruoli minori, anche io a suo tempo feci un palermitano… Poi va da sé che ci siano due categorie di attori».

Quali?

«Quelli che al di là della descrizione del personaggio, da attore di talento e non solo di botteghino, il ruolo lo creerà con il suo studio e la sua interpretazione e gli altri, che somigliano alla descrizione del personaggio e che finiscono quindi a fare sempre lo stesso ruolo».

Tornado alla polemica accesa da Favino, Andrea Iervolino, produttore di “Ferrari”, ha replicato sostenendo che negli ultimi trent’anni il cinema italiano non ha creato uno star system riconoscibile nel mondo, nonostante siano presenti sul panorama italiano moltissimi attori di eccellente professionalità, restando chiuso a collaborazioni internazionali che, in un mondo globale, sono utili alla crescita del settore. Poi ha citato attori non americani di fama mondiale come Banderas, Bardem, Cruz, Cassel, cha hanno saputo imporsi. Ha ragione lui o Favino?

«Favino, che ritengo forse il miglior attore italiano, ha ragione visto che parla perfettamente l’inglese e ha una capacità unica nel parlare tutti i dialetti italiani. Credo abbia meritato la scena internazionale, ma sa anche che gli americani preferiscono vedere la loro “verità”, la loro gestualità e hanno sempre relegato gli attori non americani in ruoli di stranieri. Quando hanno apprezzato le nostre storie le hanno rifatte alla loro maniera con mezzi hollywoodiani. “Profumo di donna”, il capolavoro di Dino Risi del 1974, non fu forse ripreso nel 1992 con il titolo di “Scent of a Woman”?».

Poiché la questione ha preso una piega inevitabilmente anche politica, nel dibattito è intervenuto il presidente della Commissione Cultura della Camera Federico Mollicone secondo il quale il ragionamento vale anche per attori italiani che recitano in inglese, come il Gattopardo recitato in inglese da attori italiani. E’ un altro aspetto che attesta la nostra presunta subalternità agli americani?

«Il problema rimane sempre la distribuzione, un film se non ha un nome forte non gira o gira poco. La forza di un film dovrebbe essere la storia, la professionalità degli attori e la mano del regista e non le contaminazioni che snaturano solo per poter vendere il film. Quando non ci sono stati compromessi sono arrivati gli Oscar: da Mediterraneo a Cinema Paradiso fino alla Grande Bellezza».

Secondo invece l’attore danese Mads Mikkelsen il problema viene però azzerato nel momento in cui il film viene doppiato, citando paesi in cui la pratica è normale come Francia, Germania, Spagna e l’Italia. E’ d’accordo?

«E questo è un altro discorso ancora, abbiamo attori e doppiatori straordinari che usano magnificamente una lingua che esiste solo al cinema e ce lo fanno amare, pur privandoci di ascoltare in originale gli attori stranieri di grande talento. Ma credo che con le nuove generazioni che hanno rimediato all’ignoranza delle lingue delle passate generazioni, la cosa si attenuerà».

Rispo, tralasciando per un attimo le polemiche, di cosa ha bisogno il cinema italiano per reggere la concorrenza globale? Quali riforme lei auspicherebbe?

«Budget competitivi per il grande cinema, maggiore fiducia nei giovani talenti e storie di ampio respiro. Poi, come diceva Flaiano, gli sceneggiatori da quando non prendono più il tram non ci raccontano mondi diversi».

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