La metropoli occupa un posto centrale nella filmografia degli anni ’80, riassumendo il fulcro delle contraddizioni sociali più forti.
Il primo ad enfatizzarla fu George Romero, che con geniale preveggenza politica e cinematografica aveva relegato i suoi zombi nei ghetti delle grandi metropoli con La notte dei morti viventi del 1968. Poi Carpenter e Ridley Scott che con 1997: Fuga da New York, (1981), e Blade Runner, (1983) scelgono la fuga dalla metropoli.
Metropoli attaccata anche dal sistema delle comunicazioni mediologiche contemporanee e dalla pubblictà come ben si vede nel film Essi vivono di Carpenter o futuristica e iper tecnologica come quella di Fino alla fine del mondo di Wenders dove le immagini assumono sempre più potere, quello che Baudrillard ha chiamato «il potere omicida delle immagini, assassine del reale».
Le immagini non si propongono più come interlocutrici o interpretazioni della realtà, ma come realtà esse stesse tout court.
Il cinema e la metropoli diventano addirittura indistinguibili, i corpi diventano fantasmi e i fantasmi corpi.
Al cinema, più che a qualsiasi altra tecnica, è concesso il privilegio di rappresentare in modo adeguato le diverse matrici dell’anima metropolitana, in quanto ne rispecchia, per molti versi, carattere e meccanismi, sintetizza, infatti, i concetti di istantaneità, frammentarietà e molteplicità di punti di vista, insiti nello spirito della metropoli e già espressi con la fotografia, secondo un principio di consequenzialità dinamica delle immagini, che rende riproducibile l’effetto del movimento.
Inoltre, si avvale delle potenzialità tecniche ed espressive del montaggio, strumento attraverso il quale acquisisce la facoltà di accostare spazi, situazioni e singole immagini tra loro distinte e di riorganizzarle secondo precisi criteri di significazione.
Il cinema, a prescindere dalle storie che racconta e dai suoi contenuti, propone una prospettiva di sguardo sul mondo che assomiglia molto ad uno sguardo errante e vagabondo che è in grado, da un miscuglio di dettagli carpiti qua e là, spesso disarticolati e privi di correlazione, di estrapolare e cogliere la fisionomia ed il senso della realtà nella sua complessità caotica.
Nella metropoli, dove il singolo frammento ne lascia presupporre altri analoghi all’infinito, la parte rappresenta il tutto e la visione per inquadrature e per sequenze rivela, molto più di qualsiasi altra visione, il carattere sostanziale della civiltà metropolitana e delle sue manifestazioni sensibili. Le metropoli moderne sono delle reti dove perdersi non solo è facile, ma anche affascinante. Camminare non per arrivare a destinazione, ma per il gusto di farlo, per il gusto di scoprire angoli mai visti.
La letteratura, di questi “vagabondi urbani”, ne ha fatto una figura tipica: il flaneur. Il flaneur compare per la prima volta a metà del secolo XIX a Parigi. E’ il passante, una sorta di incrocio tra il bohème e il vagabondo, che cammina senza meta per le strade della città, fermandosi ogni tanto a guardare.
Nel suo ruolo di osservatore il flaneur stabilisce una relazione particolare con la città, abitandola come se fosse la propria casa. Il suo percorso non coincide con il resto della moltitudine; quello che per il passante è un cammino predeterminato il percorso del mercato, -direbbe Walter Benjamin- per lui è un labirinto che cambia forma ad ogni passo: si lascia guidare dal colore di una facciata, l’inquietante uniformità di alcune finestre, lo sguardo di una mulatta.
Baudelaire vede nel flaneur l’archetipo dell’artista moderno (che doveva avere “qualcosa del flaneur, qualcosa del dandy e qualcosa del bambino”), l’unico capace di rappresentare la liquidità della vita moderna.
Nel novecento l’arte del passeggio praticata dal flaneur è sostituita dalla pratica surrealista della deambulazione, che consisteva nel passare da un contesto urbano all’altro, vagando per la città in cerca di associazioni mentali stimolate dal montaggio psichico dei frammenti urbani assaggiati. Al Surrealismo fa eco negli anni ’50 il Situazionismo, che con Guy Debord riprende la pratica del vagabondaggio urbano chiamandolo deriva psicogeografica. La Psicogeografia è un gioco e allo stesso tempo un metodo efficace per determinare le forme più adatte di decostruzione di una particolare zona metropolitana.
Se vogliamo continuare a rintracciare le varie reincarnazioni moderne del mito del flaneur nella nostra società, possiamo chiudere il cerchio con i writer metropolitani, quei fantasmi che attraversano di notte le nostre metropoli lasciando una traccia grafica del proprio passaggio, e a volte anche sottili messaggi.
Il senso ultimo di tutte queste forme di nomadismo urbano in fondo è quello di attribuire a luoghi asettici della metropoli altri significati, cercare di collegare gli spazi della geografia urbana a qualche significato che non sia soltanto funzionale, ma anche sociale.
Vittorio Zenardi