Grazie alla sua abile mano molti dei vostri sogni più belli e dei vostri incubi peggiori hanno preso vita, dagli animaletti fatati e animati della serie di Fantaghirò ai mostri più o meno umani del maestro Dario Argento. Stiamo parlando di Sergio Stivaletti, da 30 anni mago degli effetti speciali e del visual make-up per cinema e tv. Il suo curriculum, per chi non lo sapesse, è immenso e ricco di collaborazioni che spaziano da Michele Soavi a Lamberto Bava, da Matteo Garrone ai Manetti Bros, fino a giovani registi quali Alex Infascelli e Gabriele Albanesi, esponenti della nuova ondata horror underground del Bel Paese. Senza dimenticare, ovviamente, il quasi trentennale sodalizio con Dario Argento, iniziato nel 1985 con Phenomena e proseguito poi con La sindrome di Stendhal, Non ho sonno e così via, fino al recente Dracula 3d. Ma l’abilità di Stivaletti si estende anche alla regia. Nel 1997 dirige M.D.C – Maschera di cera, progetto di Lucio Fulci, poi scomparso prima dell’inizio dei lavori, e nel 2004 I tre volti del terrore. Oggi, Sergio è stato coinvolto dal produttore americano David Bond in un progetto a più voci, The Profane Exhibit, un’antologia horror in 13 episodi diretti da altrettanti registi internazionali, per la quale ha curato l’episodio Tophet Quorum, nel quale la mano dell’artigiano è più che palpabile. Crudo, violento e drammatico ma, a detta dello stesso regista, “alleggerito” negli elementi splatter in più punti della sceneggiatura, il film tocca il tema molto delicato e macabro dei sacrifici neonatali all’interno delle sette sataniche. Una bella gatta da pelare per il nostro Sergio che fa parte di quel gruppo di professionisti e amanti dell’horror che instancabilmente contribuisce a tenerlo vivo nel nostro paese, dove l’epoca d’oro dei film di genere sembra ormai completamente tramontata.
In occasione della XV edizione del Comicon, Sergio Stivaletti è stato guest star incontrastata dello spazio dedicato alla Scuola di Cinema di Napoli e a due dei suoi corsi: make-up e Noir Factory. In quanto autorità del mestiere, il maestro ha rivestito il ruolo di giudice per un contest tra le studentesse del corso di make-up cinematografico e ha presentato il suo Tophet Quorum introdotto dal prof. Giuseppe Cozzolino, responsabile del progetto Noir Factory, corso di scrittura noir.
Noi di “What’s Up” eravamo presenti e ne abbiamo approfittato per fare a Sergio qualche domanda.
- ·Sergio iniziamo restando in tema Comicon: nel 2010 hai ideato e scritto V-Factor una mini serie a fumetti. Dunque, che rapporto hai con i fumetti? Ce n’è uno che segui o apprezzi particolarmente? Devo ammettere che sono cresciuto a pane e Disney: le menti più perverse sono quelle che si sono cibate di “favolette”. Mi sono anche avvicinato ai supereroi come Superman e Batman in anni non sospetti, quando ancora i loro fumetti non venivano trasposti al cinema ed erano letti “onestamente”. Credo che gli adulti facciano bene a leggerli poiché sono una vera e propria forma d’arte. Considero che anche i film passano per la fase-fumetto, inteso come storyboard, e grazie ad esso si può anche fare a meno della sceneggiatura, poiché fornisce visivamente l’ispirazione per le inquadrature e le varie tecniche di regia. Insomma, il fumetto è per me un importantissimo elemento di visualizzazione.
Per quanto riguarda V-Factor, ammetto che non s’è trattato di un’esperienza molto positiva. Non sono un esperto ma ero molto contento del progetto. Purtroppo le mie idee si vedono molto poco, solo in alcuni punti e l’editore non ha saputo supportarmi adeguatamente. Infondo, se uno sceneggiatore o un regista non può mettere in scena i propri sogni, che senso avrebbe il suo ruolo? Ho anche curato il Dylan Dog Horror Fest in cui fumetto e cinema vivevano un rapporto profondo e reciproco e al quale hanno presenziato moltissime personalità dello spettacolo, come l’attore Robert Englund (colui che ha dato per anni il volto a Freddy Krueger, ndr). Infine, avrei dovuto lavorare alla trasposizione cinematografica di Nathan Never ma il progetto fu cancellato: un vero peccato!
- ·Parliamo della recente horror- mania di fumetti e telefilm. Paradossalmente, riscuotono molto successo alcune serie tv ( American Horror Story, The Walking Dead, True Blood) mentre l’horror made in Italy è in un periodo critico. Come potresti spiegare quest’ambiguità? Sicuramente il pubblico è stufo di non trovare sullo schermo ciò che vuole: bei film, belle storie. Non è sempre colpa del pubblico o del regista. Per Tophet Quorum, ad esempio, s’è fatto avanti un produttore americano, poiché ne ha intuito le potenzialità. Purtroppo qui in Italia non succede ed è meglio che i registi esordienti lo mettano in conto. Fare questo lavoro vuol dire lottare contro i mulini a vento e la miniera d’oro è ormai rappresentata delle fiction televisive. I produttori, spesso, non sono competenti nell’horror e può succedere che un film risulti un successo inaspettato o, viceversa, che si riducano ad acquistare prodotti esteri, fatti talmente bene che la mancanza di quelli di casa nostra non si percepisce affatto. Eppure abbiamo un vastissimo repertorio: si pensi alla stessa città di Napoli, ricca di spunti interessanti o di capolavori quali Dylan Dog, di cui non siamo stati in grado di sfruttare il grandissimo successo. Al contrario,gli americani ne hanno girato un film che è stato un flop. E negli USA Dellamorte Dellamore è davvero tra i film più amati di sempre, io stesso sto lavorando per crearne il seguito.
- ·C’è da dire però che esistono spinte “dal basso” molto interessanti, registi horror underground come Federico Zampaglione o Gabriele Albanesi, con il quale hai anche lavorato. Cosa puoi dire riguardo questa nuova scuola dell’horror made in Italy? Qui occorre fare delle distinzioni: per quanto riguarda l’ambito low-budget, c’è chi lavora con amore e professionalità ma non sempre il successo arriva. Quando i costi sono bassi, nonostante il film sia un trampolino di lancio per giovani alle prime armi, gli effetti speciali ne risentono. Ed è lì che scatta l’abilità del regista in ciò che sceglie di mostrare o non mostrare. Ci vuole l’esperienza, sicuramente.
- ·Quindi, in tal senso, quali sono i punti di forza della scuola francese e spagnola? In primis c’è la questione della case di produzione, i cui meccanismi, onestamente, non ho ancora ben compreso. In tutto il mondo, salvo che in Italia, se hai una buona idea, puoi trovare qualcuno disposto a realizzarla, anche se ciò può comportare un rischio. In tal caso il paradosso è che alcuni film vengono prodotti anche se l’insuccesso si prevede già dal titolo.
- ·Credi che le nuove tecnologie, per quanto riguarda gli effetti speciali, abbiano facilitato il tuo lavoro o che lo abbiano in qualche modo spersonalizzato? Sono due facce della stessa medaglia: nascondere un cavo, o un sostegno per il movimento di un manichino, in passato, era un incubo. Oggi tutto ciò è molto più semplice e facilmente “cancellabile”. Dispositivi macro e microscopici sono oggi molto più fruibili e alla portata di tutti.
- ·Ultima domanda. Cosa vorresti consigliare ai ragazzi che si avvicinano al mondo del cinema? Lasciate perdere! (ride) Scherzi a parte, io sono un autodidatta e ho attinto alle conoscenze anatomiche dei miei studi di medicina. Sono la prova che l’impegno e la forza di volontà permettono di riuscire in qualsiasi cosa. Certamente, sarebbe utile essere affiancati da persone competenti e magari ritornare alle cosiddette “maestranze” che c’erano una volta, che sopperivano alla mancanza delle scuole, e all’interno delle quali intere famiglie lavoravano per il cinema. Questa professionalità esiste nel cinema americano, in cui il lavoro di design è davvero impressionante, direi quasi scoraggiante.
Denise Penna