Mentre il 30% delle imprese private ha realizzato progetti strutturati di smart working, con una crescita significativa rispetto al 2016, lo scenario all’interno della Pubblica Amministrazione appare meno roseo.
Lo smart working combina l’uso sapiente dell’innovazione e sviluppa nuovi concetti di produttività individuale e di qualità della vita.
Caratterizzato da una significativa flessibilità rispetto al tradizionale modello di lavoro, grazie alla digitalizzazione e alla dematerializzazione fa si che il lavoro non sia più associato allo spazio fisico dell’ufficio ma ad un concetto di tempo, creando nuove modalità di relazione e di interazione.
La Pubblica Amministrazione è chiamata quindi ad indirizzare i suoi sforzi per cambiare i tradizionali concetti di fruizione del tempo e dello spazio, ancora ampiamente utilizzati, favorendo nuovi modelli di lavoro più efficaci ed efficienti.
A questo proposito il disegno di legge sul “lavoro agile“, inizialmente proposto dal Governo e poi ulteriormente ampliato e migliorato dalla Commissione Lavoro del Senato, fa esplicito riferimento alla possibilità di applicazione dello smartworking ai dipendenti delle amministrazioni pubbliche.
Anche la riforma “Madia” della Pubblica Amministrazione all’art. 14, nel quadro della “Promozione della conciliazione dei tempi di vita e di lavoro nelle amministrazioni pubbliche”, chiede di adottare misure organizzative “per la sperimentazione di nuove modalità spazio-temporali di svolgimento della prestazione lavorativa che permettano, entro tre anni, ad almeno il 10 per cento dei dipendenti, ove lo richiedano, di avvalersi di tali modalità, garantendo che i dipendenti che se ne avvalgono non subiscano penalizzazioni ai fini del riconoscimento di professionalità e della progressione di carriera.”
Anche se queste misure permettono lo smart working nella PA, ad oggi i casi concreti sono davvero molto pochi.
Come se non bastasse il recente pronunciamento della Consulta che, accogliendo parzialmente il ricorso della Regione Veneto, boccia alcuni dei principali decreti attuativi tra cui quello sulla dirigenza, sembra dimostrare una sostanziale difficoltà di introdurre cambiamenti importanti nell’organizzazione del lavoro all’interno del pubblico impiego.
Non sarebbe, purtroppo, la prima volta che la spinta riformista dopo aver fatto proclami e indicato obiettivi, dimostri nella realtà la propria inefficacia.
Un fallimento dovuto ad una scarsa propensione all’innovazione e ad una cultura burocratica dove è più importante la norma che il servizio al cittadino.
Un peccato gravissimo perché una corretta attuazione dello smart working nella PA sarebbe un ottimo affare per i conti pubblici con un risparmio stimabile addirittura tra 1 e 3 miliardi di euro.
Inoltre introducendo una nuova cultura, basata maggiormente sulla valutazione e la meritocrazia, lo smart working potrebbe favorire i corretti comportamenti dei dipendenti della PA, disincentivare l’assenteismo e sfavorire i soliti “furbetti” del cartellino.
Vittorio Zenardi