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Dal '68 a Papa Francesco: intervista a Claudio Rossi Massimi

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Claudio Rossi Massimi autore, regista e conduttore radiotelevisivo, ci parla del suo primo lungometraggio La sindrome di Antonio, tratto dal suo romanzo omonimo pubblicato nel 2005.

Recentemente selezionato al  N.I.C.E. Film Festival di Mosca, e vincitore della dodicesima edizione del Videofestival Internazionale di ImperiaLa sindrome di Antonio, narra il viaggio del giovane Antonio Soris (Biagio Iacovelli), che alla fine dell’estate del 1970 sulle orme di Platone e per idealismo sessantottino decide di partire da solo per la  Grecia dei “colonnelli” sulla Cinquecento della madre.
Tra incontri speciali e possibili amori il viaggio al centro del Mediterraneo ci riporta l’eco di una generazione ricca di ideali e speranze, che voleva cambiare il mondo e riuscì a malapena a cambiare se stessa.

Salve Claudio come è nata l’idea di adattare per il grande schermo il suo romanzo?
Erano anni che i miei amici e collaboratori mi dicevano che il mio romanzo poteva e doveva diventare un film. All’inizio non  ero del tutto convinto, ma poi…

Come è arrivato alla scelta dei due attori?
Insieme alla produzione abbiamo deciso di non fare i soliti casting che si fanno in questi casi perché ci sono attori che sanno farli meglio di altri a prescindere dalla reale bravura.
La scelta è stata quella di andare ad assistere ai saggi finali delle varie scuole di recitazione. E lì abbiamo scelto il protagonista maschile – Biagio Iacovelli – e molti altri interpreti. Per la protagonista femminile – Queralt Badalamenti – la scelta è stata fatta dopo averla vista più volte in vari spot pubblicitari perché fisicamente era praticamente perfetta.

Cosa è rimasto da salvare di quel determinato periodo storico?
Il discorso sarebbe troppo lungo e articolato, però posso dire che quella generazione, se anche ha fallito politicamente, è stata l’artefice della più grande rivoluzione socio-culturale di tutto il ‘900. E mi riferisco – tra l’altro – alla mutata condizione della donna, alla consapevolezza del diritto di esprimere e manifestare liberamente e pubblicamente le proprie idee, alle conquiste dei lavoratori e – non ultimo – alla gestione del proprio corpo, finalmente liberato da ipocriti divieti retaggio di una cultura tradizionalmente moralista ma priva di autentici significati. 

Un ricordo di Giorgio Albertazzi nella sua ultima interpretazione?
Questa domanda mi fa tornare a una tristezza che mi porterò appresso chissà per quanto tempo. Giorgio Albertazzi, oltre a essere quello straordinario attore che sappiamo tutti, era sul lavoro un uomo come solo i grandi sanno essere: umile e deliziosamente morbido nella sua grande disponibilità. I “grandi” non hanno bisogno di dimostrare nulla, non hanno bisogno di conferme o di formali apprezzamenti. L’unica piccola cosa che io ho potuto fare per lui è stata quella di dedicargli il mio film. 

Un giudizio sull’attuale panorama cinematografico italiano?
Mi permetta di non rispondere a questa domanda. Lavoro in quest’ambiente e non vorrei farmi troppi nemici.

Quali sono i suoi registi preferiti?
Anche qui l’elenco sarebbe troppo lungo. Tra i registi, secondo me, esistono i geni e i grandissimi. Tra i geni gliene cito due: Charlie Chaplin e Stanley Kubrick. Tra i grandissimi: Vittorio De Sica, Bernardo Bertolucci, Sergio Leone ed Ettore Scola, solo per citare gli italiani. Ma l’elenco è molto, ma molto lungo. 

Progetti per il futuro?
Sto finendo la lavorazione di un docufilm su Papa Francesco nel quale Bergoglio spiega la sua idea di arte, un’idea che parte dalla constatazione che l’arte non scarta mai nulla, come l’uomo non deve mai scartare nulla e – soprattutto – nessuno.

Vittorio Zenardi 

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