Intervista Andrea De Fusco – Regista, fotografo e artista visivo, Andrea De Fusco è nato a Roma e vive e lavora tra la capitale italiana e quella francese. Laureato al DAMS di Roma 3, ha studiato all’ESRA di Parigi dove si è diplomato, per poi conseguire il master a New York. Nonostante la giovane età, vanta diversi lavori audiovisivi e fotografici, spaziando dalle video installazioni ai documentari.
L’ultima sua opera presentata al RIFF Awards 2017 dal titolo “In Aquis Fundata” (qui la nostra recensione) è un documentario ambientato a Venezia, città dove è cresciuto, che porta nel cuore e sul grande schermo.
Come nasce l’idea del documentario In Aquis Fundata?
Avendo trascorso alcuni periodi all’estero, in particolare a New York e Parigi, mi sono reso conto di come l’immagine di Venezia si fermasse il più delle volte a quella stereotipata, da cartolina. Il documentario nasce dalla volontà di raccontare la città dal punto di vista degli ultimi abitanti che ancora vivono a stretto contatto con l’acqua. Venezia è una città che si fonda sull’acqua, ma l’impressione è che abbia in parte perso le proprie radici. L’idea nasce quindi dalla necessità di ripercorrerle tramite i racconti di veneziani che ancora detengono la tradizione di una Venezia che appare quasi marginale, molto diversa da quella che ci si immagina.
Su quali aspetti ti sei concentrato?
Ero interessato principalmente a quattro aspetti. L’aspetto edilizio rappresentato dal collettivo Idra ha la volontà di mostrare la realtà sottomarina, quella celata, dove si depositano i resti dell’uomo e che è in grado di svelare lo stato attuale della città e al tempo stesso di mostrarti la struttura sulla quale Venezia si fonda.
Ho voluto poi concentrarmi sull’aspetto nautico il cui portavoce è Franco Crea, maestro d’ascia, uno degli ultimi detentori della memoria storica della città, che costruisce le gondole con il tecnicismo tramandatogli dai grandi maestri e con la sensibilità di chi intende esaudire le personali esigenze dei gondolieri.
Il lato ludico è rappresentato da Gloria Rogliani, campionessa di voga che ancora tramanda la voga alla veneta (o meglio alla veneziana) insegnando ai bambini la propria passione o semplicemente portando i turisti in laguna per fargli vivere un’esperienza fuori dall’ordinario.
Per quanto concerne l’aspetto alimentare, Venezia ha sempre goduto di un florido mercato ittico, ma non solo. Alcune isolette limitrofe, come per esempio Sant’Erasmo vantano floride attività agricole. E’ buffo perché dall’isola immersi nelle coltivazioni di carciofi, si riesce a scorgere San Marco.
Oltre alla parte meramente documentaristica dei racconti dei personaggi sembra ci sia a intermittenza una Venezia che emerge con il proprio punto di vista.
In qualche modo volevo che la protagonista fosse Venezia, quasi come fosse un’entità che cerca sé stessa. Come uno spettro della città che riesce a svelarsi in un viaggio introspettivo, vagando dentro di sé. Da qui la ragione delle inquadrature a mezz’acqua, che consentivano di non limitare il documentario ad un film character driven, ma erano in grado di rendere la città la vera protagonista. Ho inoltre preferito accantonare i luoghi più inflazionati, tant’è che il posto più noto, rappresentato da San Marco, appare soltanto sul finale, visto proprio dall’acqua.
Questo è il tuo quinto documentario, il primo girato in Italia.
Si, ho girato due documentari per la televisione pensati per un ciclo dal titolo “Le chiavi della città”. L’obiettivo era quello di mostrare come queste città fossero porte per la cultura europea. Girai prima a Praga e poi a Berlino. “Praga – L’arcana” raccontava della città il lato esoterico nella sua grandissima tradizione ebraica, mentre “Berlino – La mutante”dipingeva Berlino come un corpo urbano coperto dalle cicatrici e dai tatuaggi della storia. Berlino appare a tutti gli effetti come la capitale dove si sono condensati tutti i crolli delle utopie del 900.
Ho poi girato due documentari da solo a New York, anch’essi prodotti da Rai Cinema e Clipper media. “Big Apple Juice” non è altro che il punto di vista di un giovane filmmaker che si confronta con la realtà di New York e con tutto quello che detiene di intrinsecamente cinematografico.
Sono partito da una frase di Baudrillard che nel suo America esprime il concetto di come uscendo da un museo italiano o olandese si abbia l’impressione che la città e i paesaggi siano nati dai quadri visti nel museo. La medesima impressione viene trasposta in America, dove quest’ultima appare nata dal suo cinema e non viceversa.
“Trainining at Gleason’s Gym” è invece ambientato nella più antica palestra di pugilato americana, palestra che ha ospitato tra gli altri pugili del calibro di Jake LaMotta e Roberto Duran.
Per questo documentario ho voluto dar voce ad un gruppo di personaggi che si discostano dal classico cliché del pugile, come ad esempio una single mom che trova nel pugilato un modo per guadagnarsi da vivere e fare quello che le piace o un prete gospel che indirizza i giovani verso il percorso del pugilato.
“Training at Gleason’s Gym” è un film estremamente corale, dove l’incontro tra le culture e le diversità la fa da padrone a dispetto degli scontri sul ring.
Quali sono i tuoi progetti futuri?
Sicuramente Venezia non è un argomento che ritengo esaurito, quindi potrei fare sempre qualcosa ambientato in questa città, non necessariamente un documentario. Mi piacerebbe raccontare la vita di chi ci cresce, in questa città che oscilla da capitale mondiale a paesino sperduto, dove i turisti si mischiano poco ai locali.
© Alessandra Picinelli