Riceviamo e volentieri pubblichiamo questa testimonianza molto toccante che ci arriva da uno dei tanti “fronti di guerra” al Covid-19.
“Sono arrivata appena a casa dopo il turno in RSA e mi arriva un messaggio: ‘E’ morto Beppe’: due ore prima avevo fatto una videochiamata con lui e la moglie e uno dei figli, respiro agonico, tutti in lacrime. Adesso anch’io sono in lacrime.
Così passano le mie, le nostre giornate, di noi che ci occupiamo degli anziani nelle RSA, punteggiate da notizie tristi e qualche volta, invece, piene di speranza; ‘Sai che Maria si è alzata a mangiare a tavola?!'”
“Da tre settimane svolgo servizio come ausiliario socio assistenziale (il mio primo lavoro di gioventù) nella RSA per anziani non autosufficienti, dove lavoro abitualmente come musicoterapista e insieme al manipolo di colleghe che sono rimaste, ci occupiamo della vita quotidiana degli anziani: li laviamo, cambiamo, imbocchiamo, consoliamo, rallegriamo, accompagniamo alla morte: cose che si facevano anche prima sì, ma non con tre mascherine e tre camici addosso, due paia di guanti e la paura”.
“Quando mi hanno chiesto di iniziare il servizio in reparto non ho dormito per due giorni, ero in ansia, avevo paura, così come molti colleghi che a questa paura hanno risposto con il senso del dovere e dell’amore per il proprio lavoro e per gli ospiti e non si sono tirati indietro; sì, noi non li chiamiamo pazienti o utenti, ma ospiti, nel doppio significato: sono sacri come l’ospite a casa tua e degni di rispetto come quando sei tu ospite a casa loro”,
“Entri in reparto, dopo aver attraversato tutte le ‘stazioni’ di questa nuova via Crucis (disinfezione delle mani, temperatura, mascherina, guanti, camice, cuffia, calzari, occhiali) e ti ritrovi da un momento all’altro immersa in un mondo parallelo. Niente più carrozzelle nei corridoi e nei salotti, ospiti ‘vaganti’ nel nucleo Alzheimer: gli anziani sono perlopiù confinati nelle loro camere, per impedire al massimo il contagio e tu sei l’unico viso che vedono, gli unici occhi, che speri davvero trasmettano tutto il sorriso e il calore che c’è sotto la mascherina. Raccogli le loro domande e le loro ansie, molti sono cognitivamente compromessi, non capiscono cosa stia succedendo, per quale motivo siamo tutti così vestiti, perché non li possiamo abbracciare e baciare come vorrebbero, perché, soprattutto, non possono vedere i loro cari: non li vedono dal 24 febbraio e sei tu che diventi per loro figlia, sorella, amica, nipote”.
“Ed alla fatica fisica (tanta, è un lavoro faticoso, davvero) si unisce la fatica aggiuntiva dei presìdi di sicurezza: le mascherine che non ti fanno respirare liberamente, il camice che ti fa sudare peggio di una sauna, i guanti che ti danno irritazione, il continuo lavare le mani e disinfettare le superfici: il primo giorno dopo mezz’ora sono dovuta correre in balcone e togliermi le mascherine, quasi soffocata. Poi ci si abitua.
Ma non ci si abitua alla morte, che comunque vediamo sempre nei nostri reparti, ci conviviamo da sempre: ma non con queste morti. Non ti danno il tempo di piangerne uno e subito devi avvolgerlo nel lenzuolo e portarlo via, senza il conforto, per noi, di poterlo lavare, vestire, sistemare perché possa affrontare la morte con la dignità che aveva in vita; senza il conforto per i parenti di poterlo piangere, di essere lì mentre compie il suo passaggio, faticoso e doloroso come la nascita. Ci siamo solo noi, che restiamo lì, accogliamo gli ultimi respiri, preghiamo per lui, lo benediciamo. E piangiamo come se fosse nostro padre, nostra madre. Per chi, come me, ha perso i genitori, è come se si si riproponesse questa morte”.
L’unico conforto è poter dire ai loro figli, fratelli, nipoti: ‘non è morto da solo: noi eravamo lì, gli abbiamo tenuto la mano'”.
“La mia RSA, come molte altre RSA lombarde è preda del Covid, abbiamo positivi e morti, nonostante da parte nostra sia stato messo in atto da subito l’isolamento, nonostante ci abbiano dato i presidi per difendere noi e i nostri anziani. Cosa non è funzionato, allora? La risposta la avrei, ma non mi voglio addentrare, ci sono già molti esperti.
E poi, in questo momento ho solo la forza di andare al lavoro e ricominciare a fare il servizio di videochiamate per i parenti che aspettano di vedere il loro caro e mi ritrovo, come fossi seduta a tavola con loro, ad ascoltare parole d’amore, a condividere risate e pianti, a consolare e rassicurare e a ricevere spesso molte buone parole, tra cui quella di una figlia che mi dice ‘spero non la portino in ospedale, vorrei restasse lì con voi, dove so che la curate, le volete bene e la conoscete: so che è in buone mani’. Ecco, a volte basta questo per dare un senso a tutto il dolore e alla fatica”.
Stefania Parma
(dipendente Fondazione Bellani di Monza)