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Parla il Maestro Serarcangeli: “Senza cultura muore l’arte”

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«L’arte raccoglie tutto di noi,  anche non volendo si tratta di un tavolo psicanalitico, dove emergono parti di noi che non sappiamo nemmeno di possedere. E’ un delitto azzerare la cultura. Se muore non si capisce più l’arte».

Questo il messaggio di Alberto Serarcangeli, pittore, incisore, fotografo e scultore pontino.  Lo Speciale lo ha incontrato dopo la sua personale, intitolata “Nature Silenti”, esposta lo scorso mese al Circolo Cittadino di Latina.

A proposito della sua formazione artistica e della sua lunga attività in Italia e all’estero, abbiamo notato che la critica tende ad associarla al realismo pittorico. Lo stesso critico Giorgio Maulucci, ha parlato di realismo oggettivo. Si sente di appartenere, quindi, a questa corrente?

«Senz’altro, le correnti a cui mi sono sempre ispirato corrispondo alla pittura del ‘900. I filoni principali sono stati da un lato naturalmente la metafisica, alludendo a De Chirico e poi il realismo magico assieme alla nuova oggettività tedesca. Ovviamente in questo contesto il mio interesse è certamente legato alla restituzione oggettiva dei soggetti rappresentati, però sempre in una chiave simbolica, quindi molto più vicina al realismo magico che non alla nuova oggettività tedesca. Anche se è bene sottolineare che certi esiti formali, come dimostra anche il pittore italiano Cagnacccio di San Pietro, si rifanno alla nuova oggettività tedesca. Purtroppo ad oggi artisti come Cagnanccio di San Pietro o altri appartenenti alla sua schiera temporale sono perlopiù ignorati, a causa della catastrofe della guerra che ha cambiato non solo il mondo da un punto di vista geopolitico, ma anche artistico, azzerando gran parte della corrente del ‘900 italiano, portando via quella ricchezza poetica che il ‘900 aveva;  ricchezza che andrebbe ampiamente rivalutata e riscoperta. Detto questo, io mi sono sempre riferito a questo periodo cercando di ripercorrere anche certi tratti di strada che considero ancora non esauriti, perché il ’900 è stato interrotto bruscamente.  Si tratta di un secolo che ha ancora molto da dire”

Come lei ha molto da dire…

“Alcuni titoli dei quadri li mutuo sia da testi di architettura, sia da titoli di altri quadri, da scritti di De Chirico e di vari artisti che di volta in volta vado esplorando. In questo senso la pittura e all’interno della pittura l’incisione, sono state le mie due guide di vita e spirituali, i miei spazi poetici, in cui ho cercato di riversare le mie riflessioni. La pittura raccoglie un po’ tutto di noi anche non volendo, si tratta di un nostro autoritratto, un tavolo psicanalitico dove emergono cose che magari uno neanche sospettava. C’è da dire che naturalmente in questo io sono favorito dall’attitudine alla sedimentazione. Poiché tendo a lavorare su più quadri alla volta, impiegando anche 10 anni per ultimare un quadro, poiché mi sembra che esso necessiti quasi di una “stagionatura”. Allora aspetto qualcosa, che non saprei neanche io definire con precisione cosa sia, ma probabilmente si avvicina ad un qualcosa simile ad un processo emotivo che giunto a compimento ti permette di vedere la via e la forma da dare. Non a caso raramente stravolgo le mie opere, ma, al contrario, tendo a completarle”.

Cos’è a questo punto per lei la pittura?

“Per gli artisti è quasi sempre una necessità, perché se diventasse un puro fatto tecnico si tramuterebbe in un lavoro di artigianato e mera decorazione. Non di pittura. Ritengo che la pittura sia superiore alla decorazione perché contiene tanta parte di noi. Di fatti io sono molto legato e lavoro molto ai concetti di nostalgia, memoria e ricordo, poiché il ricordo contiene anche il futuro, si tratta sempre di un Giano bifronte, perché il passato ha già i germi del futuro e l’analisi del passato ci permette di vedere avanti. Si tratta di una dimensione insondabile che spesso lascia sorpreso pure me».

 Nelle sue opere la Natura si struttura come centrale, se non addirittura protagonista, come si è visto nella personale esposta al Circolo cittadino di Latina. Perché ha deciso di utilizzare la terminologia “Nature Silenti” al plurale e non “Natura Silente”?

«La definizione di nature silenti l’ho mutuata da De Chirico il quale si rifiutava di definirle “ Nature morte”, anche se il genere nature morte è un genere che viene fuori nel ‘600, però giustamente lui la chiamava natura silente alla tedesca, ovvero stilleben.  Egli infatti afferma che il termine natura morta nasceva nel ‘600 con le scene di caccia. La natura morta veniva quindi associata alla cacciagione. In quel contesto era legittimo, poiché si parlava di un soggetto prima vivente e poi morto. Nel caso invece delle composizioni intese in maniera più generale dove non ci sono normalmente animali o simili, sono oggetti che hanno sempre un riscontro nel paesaggio. Nello specifico, io sono molto legato al paesaggio pontino. Infatti ho sempre negli occhi scorci di passaggio. Si pensi per esempio al Circeo che spesso compare. Essa è appunto una presenza iconica se non magica, sempre visibile all’orizzonte. Magica perché è correlata ad esempio all’epica e alla mitologia e a tutto il corredo culturale del territorio. Spesso riproduco anche il castello di Torre Astura, che si posiziona nel mare. Questo perché per me ha una valenza mitica, se non addirittura mistica per il suo fortissimo vissuto storico. In questo senso, si è presentata una perdita del paesaggio, per l’appunto nella sua misticità e sacralità, poiché si tratta di un territorio così antico e così ricco di testimonianze e di emergenze che sembrano quasi gridare aiuto, senza però ottenere risposta. La pittura, è bene dire, è un fatto culturale e di civiltà, perché appartiene alla cultura, che è propria della civiltà, la quale si configura come la base della nostra società. La cultura è stata appiattita e azzerata. E quanto più la pittura fa riferimento ad un substrato culturale, tanto più diventa incomprensibile per la gran parte delle persone, in quanto le persone sono abituate a immagini banalizzate e pre-digerite, che sono inclini a visioni passive. Invece la pittura per definizione è problematica e di conseguenza fonte di interrogativi. La pittura è quindi un processo problematico che termina apparentemente con la fine del quadro, ma poi la problematicità alla fine del quadro rimane insita nel messaggio che il quadro ti lancia”.

Perché per lei è centrale ed essenziale rendere vivi gli oggetti? Cosa vuole che l’osservatore colga e percepisca all’interno delle sue opere?

«Per la migliore tradizione della pittura sia metafisica e poi surrealista  gli oggetti hanno un significato che va oltre la loro pura visibilità, ovvero un vaso non è necessariamente solo un vaso. La pittura, soprattutto surrealista, ci ha spiegato e ci ha dimostrato che gli oggetti non sono solo quello che sembrano, ovvero sono capaci di essere portatori di una realtà che va oltre. La relazione tra i vari oggetti e soggetti del quadro fa emergere o per lo meno allude a questa altra realtà”. 

In che modo il Covid 19 ha influenzato la sua produzione artistica e soprattutto quale dovrebbe essere il ruolo dell’arte in questo momento di ripresa che il paese sta affrontando?

«Il Covid ha senz’altro influenzato la mia opera. La nostra nazione non solo nel contesto artistico, ma nella sua interezza, ha creato una dinamica talmente alterata e sbagliata che all’insaputa della nuova generazione vi sta privando di una serie di opportunità. Con il patrimonio che l’Italia detiene, dovrebbe essere una nazione di cultori dell’arte. Se tutti pensassero al bene comune noi avremmo sviluppato una nazione incredibilmente funzionante. Ma purtroppo tutto si riduce alla volontà del singolo, che poi non si cura della massa. L’arte in questo momento di ripresa deve essere uno di quegli ambiti aiuta l’uomo a vivere e in questo contesto a tornare a vivere. Per ciò che mi riguarda quando sono in studio il mondo circostante si dissolve, questo poiché dipingere mi conferisce quella energia e quella forza funzionale ad affrontare poi il modo esterno».

Di Angele Mulibinge 

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