Le parole più entusiastiche le ha dette il ceo di Eni Claudio Descalzi, impegnato in questi giorni con Giorgia Meloni nella missione nordafricana che dovrebbe renderci indipendenti dal gas russo: «Grazie all’Algeria azzeramento dell’import da Mosca entro il 2024», ha assicurato. Un risultato sufficiente a promuovere il paese a «partner strategico che sta aiutando molto l’Italia».
La premier gli ha fatto subito eco, non risparmiando i toni delle grandi occasioni: «Oggi l’Algeria è il nostro principale fornitore di gas – ha dichiarato. Sono state firmate due intese da Eni e la sua omologa algerina, un’intesa per ridurre le emissioni di gas serra, quindi per uno sviluppo sostenibile». Durante la conferenza stampa col presidente Abdelmadjid Tebboune, si è poi prodigata in ringraziamenti al «partner affidabile e di rilievo strategico», promettendo di rafforzare l’alleanza pure «nel campo politico e culturale». Addirittura.
Ma tu pensa, bastava fare un paio d’ore di volo fino ad Algeri per trovare gas a prezzi convenienti e smetterla di rifornirsi da Putin. La domanda viene spontanea; se approvvigionarsi dall’Algeria era così facile e conveniente, perché non ci abbiamo pensato prima? La risposta è che, ovviamente, così facile e conveniente non è. I fatti consigliano sì di procedere, ma con prudenza.
Prima di tutto va detto che la fornitura algerina non è una novità assoluta: già due anni fa, quando nessuno parlava di guerra in Ucraina e Putin sembrava un saldo partner dell’Occidente, ricevevamo dall’ex colonia francese 21 miliardi di metri cubi di gas. Oggi siamo saliti a 25 miliardi e il prossimo anno a 28. Cifre che comunque non bastano certo a soddisfare il nostro fabbisogno.
L’altra verità è che infatti l’Algeria è solo uno dei tanti fornitori ai quali ci stiamo rivolgendo; tra gli altri, come ha ammesso lo stesso Descalzi, figurano l’Egitto, la Libia, il Mozambico, l’Angola.
Qualcuno a questo punto avrà già storto il naso facendoci venire al vero problema; stiamo sostituendo le forniture russe con quelle di partner che non solo non sono certo più democratici di Putin, ma neanche possono essere considerati regimi stabili e quindi fornitori affidabili nei prossimi anni.
Della Libia non parliamo nemmeno: dalla violentissima “primavera araba” che è costata prima il potere e poi la vita a Gheddafi, precipitandolo in una più che decennale guerra civile, il paese è diventato uno dei paesi più instabili e inaffidabili al mondo. Ma non si trova in condizioni troppo migliori l’Egitto, controllato da una giunta militare arrivata al potere con un colpo di stato, o il Mozambico, dove le milizie dei principali gruppi di opposizione controllano di fatto quattro province del paese, e neppure l’Angola, dove gli scontri tra separatisti ed esercito sono all’ordine del giorno.
L’ambizione della Meloni, che punta a sfruttare la posizione geografica dell’Italia per rendere il nostro paese il punto di collegamento tra i fornitori africani e la sempre più energivora Europa, è comprensibile. Ma se i partner dal lato dell’offerta sono così poco affidabili viene da domandarsi se davvero convenga investire decine di miliardi di euro in gasdotti che poi, a causa di una guerra civile o di un cambio di regime o di qualche accordo con i rivali cinesi, rischiano di rimanere inutilizzati. Nordstream 2, mai utilizzato, è costato 12 miliardi di euro. Conti che è bene farsi prima di infilarsi in un’altra relazione pericolosa come quella intrattenuta per anni con la Russia.