Non saranno solo canzonette, ma il Festival di Sanremo non è il pulpito più adatto per Volodymyr Zelensky, leader di un Paese in guerra. Non è lecito, non è sano, non è giusto inserire una tragedia come quella ucraina (e che tragedia!) in un contesto leggero, come rimane pur sempre Sanremo, al di là del fatto che non si tratta più (e da decenni) solo di una manifestazione canora, ma dell’epifania annuale dello “spirito del tempo” o, se preferite, dell’anima nazionalpopolare italiana.
Non è lecito, non è sano e neanche di buongusto parlare di morti, di sangue e di missili a un pubblico che attende di sapere quale sarà la canzone vincitrice della kermesse, la canzone-tormentone dei mesi a venire.
Del resto, a che cosa potrebbe mai servire quest’annunciata apparizione di Zelensky sul megaschermo del teatro Ariston? Forse a “sensibilizzare” il pubblico sul dramma della guerra alle porte orientali d’Europa? Per favore non scherziamo. Il conflitto in Ucraina, di tutto ha bisogno, meno che di ricordarci della sua esistenza, essendo il nostro pane quotidiano da quasi un anno.
L’unico effetto di un Zelensky che ci parla del dramma del suo popolo tra piume e paillettes è quello di banalizzare il male, il male di una guerra combattuta con inaudita ferocia da entrambe le parti, il male delle città sventrate dalle bombe, il male di due popoli fratelli che puntano a eliminarsi a vicenda, il male che potrebbe anche investirci direttamente se la crudeltà della guerra sui fronti del Donbass dovesse malauguratamente portare all’utilizzo di armi atomiche. Si può forse scongiurare questo male gigantesco con l’applausometro del teatro Ariston? Sono già da immaginare gli applausi scroscianti che verranno subito dopo l’esibizione del presidente ucraino, un interminabile battimani, pubblico in piedi, occhi inumiditi dall’emozione, brividi sottopelle, fischi e lazzi, le telecamere della Rai che indugiano a lungo su tanti volti eccitati e tanti cuori in tumulto, Amadeus che finge di commuoversi. Si aiutano così due popoli in guerra?
Ben altre cose può fare l’opinione pubblica occidentale per la gente che soffre a causa di questa guerra. Può spingere i governi a comportamenti più responsabili e meno schiacciati sull’ortodossia atlantica. Può avviare un grande moto di protesta contro quella che si sta profilando come una pericolosa escalation sul teatro del conflitto. Può reclamare l’avvio di negoziati seri e non di mera facciata. Tante cose può fare. Ma tutto quello (anche poco) che può fare passa per la consapevolezza della gravità del momento. Passa per un recupero di serietà collettiva, non certo per un “cammeo” in un programma televisivo di grande ascolto.
Né vale, nel caso di Zelensky, richiamare il caso di Michail Gorbaciov, che partecipò all’edizione 1999 del festival. L’ex leader sovietico era ormai solo un testimone della storia e non un protagonista di eventi grandi e tragici come è invece l’attuale presidente ucraino. Fu, per la verità, uno spettacolo triste, com’è triste, sempre, la storia che finisce in un palcoscenico. Ma non fece male a nessuno, come invece può far male, oggi, la banalizzazione di una immane tragedia bellica.
Ma perché, al dunque, interrogarci su Volodymyr Zelensky che partecipa a Sanremo? Perché i vertici Rai lo hanno invitato? O bella, penseranno tutti, il motivo è rappresentato dagli ascolti. Dire questo è dire il giusto, ma non è dire tutto. Perché si dà il caso che in questo periodo sia in corso un braccio di ferro sotterraneo (ma non tanto) su Carlo Fuortes, amministratore delegato della Rai. I leghisti vorrebbero dargli subito il benservito, in modo da procedere al riassetto del vertice della Tv di Stato. Giorgia Meloni non sembrerebbe invece propensa ad aprire oggi un caso Rai, preferendo aspettare la scadenza delle cariche di viale Mazzini prevista per l’anno prossimo.
Ecco perché, forse, Matteo Salvini sta premendo sull’acceleratore della polemica su Zelensky a Sanremo. Ma ecco anche perché dirigenti e pezzi grossi Rai in marcia verso la premier (come ad esempio Bruno Vespa) difendano a spada tratta l’idea del presidente ucraino all’Ariston. Un flop di Sanremo favorirebbe gli anti-Fuortes. Viceversa, un alto in dice di ascolti lo aiuterebbe a rimanere in sella.
Difficile prevedere come andrà a finire. Un fatto però è certo: a Viale Mazzini, a tutto pensano, fuorché alle sorti del popolo ucraino. Tutto, alla fine, gira intorno alle poltrone. Zelensky o non Zelensky.