Chi guadagna davvero dalla guerra in Ucraina

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È l’elefante nella stanza dei bottoni, l’argomento che nessuno vuole affrontare quando si parla di sostegno all’Ucraina: ovvero che le forniture militari a Kiev potrebbero trasformarsi in un affare per l’industria bellica e un’iniezione rivitalizzante per le economie europee chiamate ad aumentare i loro investimenti nel campo bellico.
Già i dati del 2021, l’ultimo anno a essere per ora certificato dallo Stockholm International Peace Research Institute (Sipri) sono stati molto positivi per il settore, che aveva raggiunto i 592 miliardi di dollari di fatturato nonostante i problemi di approvvigionamento di componenti elettroniche – soprattutto i semiconduttori e i metalli pregiati – avessero rallentato la produzione come avvenuto nel settore automobilistico.
Un mercato enorme, quasi tutto appannaggio dell’occidente. Le aziende statunitensi, da sole, controllano la metà del mercato, mentre se aggiungiamo gli altri alleati della Nato arriviamo all’80% del totale, con cinesi e resto dell’Asia a spartirsi le briciole. Un segnale importante per tutti quegli analisti che vedono questo campo “contendibile”; gli Stati Uniti rimangono l’unico vero gigante militare mondiale, sia nel campo pubblico che privato, con buona pace delle aspirazioni cinesi, che pure nel 2021 hanno visto il loro fatturato aumentare del 6%, più di quanto avesse fatto il Pil di Pechino.
A questo proposito due numeri valgono più di qualunque argomentazione; le commesse americane assommano a 300 miliardi di dollari, quelle russe a meno di 18 miliardi. La guerra in Ucraina non sta facendo altro che confermare questo divario, anche a beneficio dell’industria europea che, messa insieme, è ancora superiore a quella cinese. Ma il cambiamento di produzione potrebbe essere qualitativo, oltre che quantitativo.
Negli ultimi anni infatti le commesse si erano concentrate su produzioni ad altissima tecnologia, come droni, jet e sottomarini; l’invasione ai danni di Kiev ha invece dimostrato quanto siano ancora importanti i mezzi “tradizionali”, come i carri armati e i mezzi corazzati, meglio se prodotti già in serie da tempo e quindi più facili da riparare in caso di danneggiamento o sostituire in caso di distruzione.
Il caso dei carri armati T-14 è emblematico; in teoria fiore all’occhiello delle armate di Putin, finora si sono visti soprattutto alle sfilate per le strade di Mosca perché i russi non sono in grado di costruirli in serie, soprattutto per il difficile accesso ai componenti necessari per realizzare i raffinati sensori di cui è dotato. L’unico campo di battaglia dove sono stati testati è quello siriano, che per tipologia di territorio e tipologia di avversari da affrontare è molto più facile di quello ucraino. È andata a finire che in Ucraina sono andati i vecchi T-90, progettati oltre trent’anni fa sulla base di carri armati ancora più vecchi, in dotazione all’Armata Rossa nei primi anni Settanta.
Non c’è dubbio che i russi potranno proseguire a lungo la guerra contro Kiev contando sull’acquisto di droni prodotti da turchi e iraniani, ma Putin non può non sapere che più prosegue con il conflitto più rafforzerà l’apparato bellico dei suoi peggiori nemici. Facendo un favore enorme alle sonnolente economie occidentali.

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