Altro che arabi, Credit Suisse si fa salvare in casa

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Sembravano quasi piccati, i sauditi di fatto padroni di Credit Suisse, quando sono intervenuti ieri per rimediare al panico causato dal presidente della Saudi National Bank, che martedì aveva detto di “non avere intenzione di fornire altra liquidità” alla banca elvetica dopo la scoperta di “debolezze sostanziali” nei suoi processi di rendicontazione finanziaria.

Di fronte a una dichiarazione del genere, come prevedibile, il titolo è crollato in borsa cedendo il 26% in un solo giorno e richiedendo l’intervento della banca centrale svizzera, che ha tenuto in vita la banca prestandole 50 miliardi di franchi svizzeri. Solo a questo punto la proprietà araba si è sentita in dovere di parlare, affermando che le turbolenze di mercato sulle azioni della banca svizzera erano “ingiustificate” e attribuendo il calo dei prezzi di mercoledì al “panico”.
Come se non sapessero che è appunto il panico il vero motore immobile del mercato finanziario, il sentimento che fin dal venerdì nero del 1929 è la causa di ogni disastro finanziario globale. È il panico che ad esempio sta spingendo centinaia di migliaia di piccoli risparmiatori a prelevare i loro risparmi dalle banche regionali (come la Silicon Valley Bank) per depositarli nelle gigantesche e più sicure Bank of America, Citi Group e JP Morgan. Le conseguenze si sono già viste: la piccola e tutto sommato solida First Republic Bank è andata in sofferenze e sono serviti 30 miliardi di dollari – forniti proprio dalle grandi banche destinatarie dei depositi in fuga – per tenerla in piedi.
Per ora Credit Suisse non sembra rischiare lo stesso destino, ma di sicuro avrà bisogno di una bella ristrutturazione per riprendersi. D’altra parte i disastri cui rimediare sono parecchi; dalla perdita di 5,5 miliardi causata dal crollo dell’hedge fund Archegos Capital, dovuto secondo la stessa banca a “un atteggiamento apatico nei confronti del rischio e della disciplina del rischio”, alla perdita di 10 miliardi dei fondi che avevano investito, con i soldi dei clienti del Credit Suisse, nei disastrosi prestiti mediati da Greensill.
Secondo il nuovo amministratore delegato Ulrich Körner per rimediare a questi buchi sarà sufficiente adottare un piano di trasformazione strategica per rendere la banca “più semplice e mirata”. Dietro questo slogan facile facile si cela una strategia di disinvestimento importante: in pratica per sopravvivere gli elvetici puntano ad abbandonare le attività di banca da investimento e il solito piano di taglio dei dipendenti, circa 9000 persone di qui al 2025.
Così facendo si dovrebbe evitare un crac che sarebbe infinitamente più doloroso di quello della Silicon Valley Bank, sia dal punto di vista puramente economico sia da quello politico; la reputazione degli svizzeri ne uscirebbe a pezzi.
Però l’operazione di rimpicciolimento  non sarebbe bastata; la soluzione preferita dagli investitori era quella di coinvolgere l’altra grande banca elvetica, la Ubs, in una operazione di acquisto della maggior parte degli attivi di Credit Suisse detenuti in Svizzera, assicurando così la stabilizzazione del sistema bancario nazionale e soprattutto il salvataggio dei posti di lavoro degli impiegati dalle parti di Berna. E guarda caso è proprio così che è andata. Perché va bene la proprietà saudita, ma quando le cose cominciano ad andar male pure la finanza si riscopre sovranista.

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