Mandato d’arresto a Putin? Una boiata: ecco perché

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Mandato d’arresto a Vladimir Putin: se fossimo in un film della serie Fantozzi, Paolo Villaggio direbbe che è una “ca… pazzesca”. Noi, nella realtà storica, ci limitiamo più educatamente a dire, che è una vera boiata.

Perché un giudizio così severo? Per due motivi. Uno politico e l’altro giuridico. Il motivo politico è che i giudici dell’Aja hanno in questo modo reso ancora più difficile l’avvio di un negoziato di pace. Il motivo giuridico è che un mandato d’arresto a Putin è di fatto inefficace e sostanzialmente illegittimo. Tant’è che la decisione dei giudici internazionali ha lasciato piuttosto fredde le cancellerie internazionali (a parte Kiev). Né sono arrivati gli sdilinquimenti dei commentatori progressisti.

L’unico che si è avventurato in uno spericolato peana a mezzo stampa è stato, sorprendentemente, un commentatore “cattivista” come Alessandro Sallusti, il quale ha scritto che il mandato d’arresto al presidente russo «ci obbliga a scegliere da che parte stare, nel mezzo non c’è più nulla». Dopo questa decisione «si può solo scegliere se stare con l’Occidente o contro l’Occidente». Forse il direttore di “Libero” pensava di fare una favore al governo. Allora è bene che qualcuno gli ricordi che certi manicheismi mettono solo in crisi la diplomazia e che prefigurare lo scontro tra l’Occidente e l’Oriente (Russia, Cina, Iran e altri) vuol dire solo preparare la guerra nucleare. In ogni caso, un così grossolano modo di argomentare è fuori dalla realtà politica internazionale. E c’è da sperare che a nessun esponente del governo (e nemmeno della maggioranza) venga in mente di prendere sul serio un simile, fin troppo ostentato, atlantismo.

Alla fine il problema politico è semplice e, nello stesso tempo, serissimo: trattare Putin da “criminale internazionale” mette in imbarazzo i possibili negoziatori occidentali e rende ancora più intransigenti i russi. Gli unici che possono gioire sono solo gli estremisti dell’ “etica  assoluta”, come ad esempio Carla Del Ponte (il giudice che, a suo tempo, accusò Slobodan Milosevic), la quale ha dichiarato, gongolante, che «se Putin  esce fuori dalla Russia, finisce in cella». Se fosse vero quanto afferma questo implacabile magistrato, l’unico esito possibile alla guerra in Ucraina sarebbe l’Armageddon, perché sarebbe praticamente impossibile arrivare alla pace.

In realtà la Del Ponte si sbaglia, visto che, come dicevamo prima, il mandato d’arresto a Putin  è  inefficace e sostanzialmente illegittimo. La giurisdizione della Corte penale internazionale non si applica infatti alla Russia, perché Mosca non ha ratificato il Trattato di Roma che istituì nel 1998 il Tribunale internazionale permanente. E non si può applicare neanche a fatti accaduti in Ucraina, dal momento che neanche Kiev ha aderito al medesimo accordo internazionale.

Vale la pena sottolineare che un arresto del presidente russo sarebbe illegittimo persino se, per una inverosimile ipotesi, avvenisse sul territorio americano. Sapete perché? Perché neanche gli Usa hanno ratificato il Trattato istitutivo della Cpi. Il motivo non è difficile da intuire, visto l’alto numero di generali americani che potrebbero finire sotto accusa del Tribunale internazionale per episodi accaduti durante le guerre provocate e condotte dagli Usa dal 1998 a oggi. Alla fine, la giustizia “cosmopolitica” non si abbatte mai sui più potenti e sui più ricchi.

Dubbia sarebbe inoltre la legittimità dell’eventuale applicazione del mandato di arresto a Putin in territorio europeo: il fatto che i Paesi dell’Ue abbiano ratificato il Trattato di Roma non comporta automaticamente che sul loro territorio si possa arrestare, per crimini di guerra, il cittadino di uno Stato che non abbia aderito allo stesso trattato.  Il caso di Milosevic, spesso richiamato, non si può applicare al caso di Putin, visto che il tribunale che processò Slobo era una corte speciale per i crimini nella ex-Jugoslavia, una corte istituita su decisone del Consiglio di Sicurezza dell’Onu nel 1993. Parliamo quindi di un’entità diversa dall’organismo che ha spiccato il mandato di arresto per Putin: la corte che ha accusato Milosevic –vale la pena sottolinearlo- è stata creata anche con il consenso di Russia e Cina. Chi invoca il precedente del leader serbo è quindi totalmente fuori strada.

Ma, al di là del profilo politico e di quello giuridico, il mandato d’arresto al presidente russo rimanda in ogni caso a un principio assai discusso come quello della giustizia internazionale, dal momento si tratta di un principio considerato da molti, e non senza ragione, ideologicamente arbitrario.  È una vecchia storia. Il “tribunale mondiale” dei diritti umani è sempre funzionale alle proiezioni imperialistiche e sostanzialmente antidemocratico. «Chi dice umanità vuole ingannarti», diceva Carl Schmitt riecheggiando Pierre-Joseph Proudhon. Così annotò, in anni più recenti,  il filosofo del diritto Pietro Barcellona: «La globalizzazione ha messo in luce l’aspetto dell’universalismo giuridico che consiste nella neutralizzazione dell’istanza democratica, e risolve i rapporti tra il potere e l’individuo solamente a funzioni giurisdizionali».

I politici devono cedere il passo ai giuristi: è questa l’utopia dei teorici del Tribunale internazionale. È un ideale che ispira parole normalmente altisonanti, ma che porta a confondere i teoremi astratti con la realtà. Con conseguenze potenzialmente disastrose, ogni volta che parliamo di popoli e paesi in guerra.

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