Perché abbiamo bisogno di un salario minimo

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Il problema in Italia non è la mancanza di un salario minimo, ma il fatto che in un certo senso ne esistono troppi. Nel nostro paese si contano infatti 900 (novecento!) minimi tabellari stabiliti dalla contrattazione settoriale. In pratica ogni sottocategoria di lavoratori ha il suo minimo. Il problema, oltre alla confusione causata da un numero così abnorme di soglie base, è che queste sono il risultato dell’intervento dei sindacati, non della legge.

È proprio per questo motivo che Giorgia Meloni dovrebbe riflettere sull’opportunità di definire uno stipendio base sotto il quale nessun datore di lavoro può scendere; si metterebbe in questo modo fine allo strapotere dei sindacati, che non a caso in Italia continuano ad avere un ruolo quasi politico, sempre meno giustificato vista la rappresentatività offerta da un numero sempre minore di iscritti.

Non è un caso se il salario minimo esista quasi ovunque nel mondo occidentale, anche – e anzi soprattutto – in quei paesi dove la sinistra non ha mai dominato culturalmente e politicamente, come il Regno Unito e soprattutto gli Stati Uniti. E i pochi stati dove non esiste sono proprio quelli, guarda un po’, dove i sindacati sono potentissimi, come i paesi scandinavi. La mancanza di un salario minimo infatti aumenta a dismisura il potere dei rappresentanti dei lavoratori, che nel caso in cui un dipendente sottopagato voglia far valere i suoi diritti di fronte a un giudice di solito lo rappresentano insieme all’avvocato. Un genere di attività del quale ci sarebbe molto meno bisogno se si riuscisse a definire uno stipendio minimo dignitoso.

È inoltre difficile non collegare l’assenza del salario minimo – che permette a certi “impresari” di pagare dei poveracci due euro l’ora per lavorare in condizioni spesso durissime – con le condizioni economiche mediamente pietose dei lavoratori italiani. Come spiega Tito Boeri su Repubblica nel nostro paese “quasi un terzo di chi ha avuto almeno un reddito da lavoro negli ultimi 12 mesi è sotto la linea di povertà Istat”. In pratica il fenomeno dei working poor, che a noi piace citare in inglese per sentirlo lontano da noi, come se non ci riguardasse, è una tragedia prima di tutto nostrana.

E la situazione continua a peggiorare: il nostro è l’unico paese in Europa dove negli ultimi trent’anni gli stipendi sono riusciti a scendere, di ben il 2,9%, e questo nonostante la produttività sia cresciuta anche se meno della media Ue.

Fa quindi sorridere vedere la Meloni che “coraggiosamente” si scaglia di fronte alla platea di Cgil contro il salario minimo; in realtà ha parlato di fronte a gente che la pensava esattamente come lei. L’impressione è che la premier, avendo già tante gatte da pelare per quanto riguarda la tenuta dei conti pubblici, non abbia intenzione di aprire altri fronti, tanto più su un tema che la vede allineata a sindacati a Confindustria, anch’essa ovviamente contraria a individuare un corrispettivo minimo garantito da riconoscere ai dipendenti.

Ma se si vuole combattere il fenomeno dei contratti pirata, solo nominalmente rispettosi di minime tabellari spesso concordate da sindacati piccolissimi e più attenti alle esigenze dell’imprenditore che a quelle dei lavoratori, e dell’impossibilità per molti italiani di sopravvivere con i bassissimi stipendi offerti, l’unica soluzione è affrontare la questione in Parlamento. La leader di FdI non lo farà, ma in questo modo potrà solo rinviare un problema che esploderà in tutta la sua evidenza tra qualche mese, quando moltissimi degli elettori che l’hanno votata si accorgeranno di non aver affatto migliorato le loro condizioni economiche.

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