Oggi è di scena la Grande Arte…un quadro, un film, separati da un secolo, ma entrambi accolti con dileggio e collera…e in seguito ampiamente risarciti perché Grandi e fortemente significanti…E’ sempre interessante esplorare il dark side di un’opera d’arte…e l’alto costo che il Bello richiede a chi lo produce…come sempre, amici cari, BUONA LETTURA!
Vita da cani, questa Olympia di Manet! Anzi, da gatti. E per di più total black, come quello che occhieggia a destra, spiritato e a coda ritta. Presentiva forse, il micio sensitivo, l’uragano di contumelie inferocite che accolsero il dipinto quando debuttò al Salon parigino del 1865?
E’ ipotizzabile, considerata la clairvoyance che i conoscitori attribuiscono alla specie. E in ogni modo fa piacere apprendere dal New York Times che quest’opera così fraintesa, epocale, travagliata, finalmente si godrà un felice viaggio premio a New York. Dove sarà vittoriosamente esposta al Met insieme ad altre opere, meno controverse, dello stesso Manet e del suo amico Degas. Da questo settembre al gennaio del ’24.
Guardandola oggi, questa piccola, enigmatica fille de joie ( che di gioia ne irradia ben poca), si stenta a comprendere perché mai pittori, critica, e pubblico si siano avventati congiuntamente, e con tanta ferocia, sulle sue pallide carni. Demolendo, insieme a lei, lo sbigottito autore, Edouard Manet. Non nuovo alle stroncature, peraltro. ‘Dejeuner sur l’herbe’, esposto due anni prima, gli aveva già fruttato lo sdegnato rigetto del pur generoso Delacroix. Seguito a ruota dalle moleste spernacchiate del grosso (e grossier) pubblico. Ma lui, Manet, come tanti suoi predecessori, aveva incassato, fatto fronte. Ora, però, il suo utopico temperamento aquariano, così sposato al futuro e spaesato nel presente, l’aveva ubriacato d’una certezza fallace.
S’era figurato che la sua innovativa Olympia – scandalosamente priva di Olimpo e di seduttivi maquillages pittorici – ce l’avrebbe fatta. A trovarsi un pubblico nuovo. Ardito. Che simpatizzasse con la verità cruda della sua fredda nudità. Una prostituta non può avercelo, un cuore ardente. Troppo rischio, per lei. Il calore, il tepore rosato dei chiaroscuri non si addicono alle sue carni mercificate. Si sentiva giusto, Manet. E si aspettava, fiducioso, una sorta di consacrazione.
Accadde esattamente l’opposto. Si gridò all’orrore, allo scempio, allo scandalo. La stigmatizzarono come ‘corrotta odalisca’, si odiò ‘il suo ventre giallo’, la si tacciò d’essere un’infima ‘modella pescata chissà dove’. La si diffamò così tanto che la costernata Olympia finì per diventare ‘il caso del 1865’. I visitatori si accalcarono, ai cilindri dei borghesi si aggiunsero i berretti sgualciti della plebe. Si faceva la fila per vedere quella donnetta scandalosa, e abbaiare risentiti al suo cospetto. ‘La Presse’ tuonò ‘Quando l’arte scende ad un livello così basso non merita neanche il disprezzo’. Ma il popolino nel disprezzo ci sguazzava, e altrettanto nella rabbia.
L’aggressività toccò livelli allarmanti, alcuni tentarono di sfondare la tela con gli ombrelli. Fu messa ‘sotto scorta’, diremmo noi. Due poliziotti a fianco del dipinto. Poiché non bastava, la traslocarono in alto, sempre più in alto, appiccicata al tetto della sala.
Ma cos’aveva, di così blasfemo? ci si chiede oggi, basiti. Al Salon di Parigi, nudi accettati e acclamati s’erano già visti. Due anni prima aveva furoreggiato la ‘Nascita di Venere’ di Cabanel. Dove una turgida, languida, biondissima donna, è sdraiata non su un prosaico letto bianco-obitorio, come la nostra Olympia, ma su avvenenti onde d’un azzurro acquietante. Festeggiata in cielo da cinque bei puttini grassottelli. Uno squisito oggetto del desiderio, irrintracciabile nella vita di ogni giorno, ma che significava i limpidi e meno limpidi transfert carnali degli ammiratori in cilindro. Oltretutto, glorificata e assolta dal più erotico tra i nomi di dee: Venere!
Niente di tutto questo, invece, nell’Olympia di Manet. Come disse Emile Zola, uno dei pochissimi contemporanei insieme a Baudelaire che con forza la difese ‘Ha il grave difetto di assomigliare a molte signorine che conoscete…’
Aveva messo dito sulla piaga. Tutti i buoni borghesi che arrossivano di sdegno davanti a lei, erano accesi frequentatori di bordelli e ferventi rastrellatori di marciapiedi. Riconobbero subito in quella ragazza di minute proporzioni, che li fissava con franca indifferenza, senza alcun tentativo di mascherare la transazione in atto, una ‘di quelle’. Una che ( come si legge su Stile-art) ‘Non si nasconde agli sguardi, non arrossisce, ma non chiede nemmeno di sedurre. Esige soltanto di essere pagata’. Questo li fece ammattire. Ci dice ‘chi siamo’. E chi è lei. Inaudito! Al rogo, la sfrontata!
Per inciso: visto il karma ostile che la segna, ce la farà ora la pallida Olympia a bypassare negli USA gli occhiuti sbarramenti della cancel culture? Non per la nudità, stavolta, ma per quella cameriera nera che le porge un mazzo di fiori, probabile dono propiziatorio d’un cliente in arrivo? L’associazione ‘nera’ – ‘serva’ – ‘prostituzione’ – supererà il boicottaggio e i tizzoni infocati dei deliranti Cancellatori? Glielo auguriamo, con simpatia sincera. E altrettanto si starà augurando, con un po’ di batticuore, il Museo d’Orsay di Parigi che coraggiosamente ha dato l’OK all’espatrio.
Colpisce certo, nel Terzo Millennio, quella sanguigna, calorosa partecipazione di folle – anche se ringhiose – ai fatti dell’arte. Ci si faceva all’amore coi quadri, allora, o li si spediva alla ghigliottina. Non è rilevante. Rimane il fatto che a metà Ottocento, a Parigi, un dipinto era carne e sangue, un fatto personale, un parente stretto, un figlio che t’incorona o ti disonora.
Da quando l’arte figurativa che più non ‘raffigura’ ha smesso di attrarre folle? Colpa del postmodernismo, come afferma l’acuta saggista statunitense Camille Paglia? Ai giovani artisti, lei dice, è stato insegnato a essere ‘cool’ e ‘alla moda’, non sono incoraggiati a essere entusiasti, emotivi e visionari… c’è poco da fare, il mondo dell’arte non potrà mai rivivere fino a quando il postmodernismo non svanirà. Il postmodernismo è una piaga per la mente e il cuore, conclude.
Lontano anni luce, dal postmodernismo, di mente e cuore certo non difettava Peppino Amato. Il geniale, eroico produttore napoletano che ci donò ‘La dolce vita’. Film cui tutto il mondo s’inchinò e s’inchina. Maestoso, scanzonato, sconfinato, supremo. Uno dei più grandi film di tutti i tempi.
Grazie tante…L’ha fatto Fellini!…il Number One, il Mago, il Sommo, il regista dei 5 Oscar, la Palma d’oro, il Leone d’oro, e Grolle d’Oro a bizzeffe…che c’entra ‘sto Peppino Amato, che manco sappiamo che faccia avesse?
Non la sapete perché solitamente, per l’ignara folla, il produttore la faccia non ce l’ha. Per la folla è l’Uomo ‘della grana’. Il miliardario nell’ombra. Ma se volete saperne di più di questo singolarissimo produttore – tra i più importanti di quei tempi in Italia – scovate su Prime il prezioso docufilm di Pedersoli ‘La verità su La dolce vita’.
Non fosse stato per la passione, totale, ossessiva che da subito ghermì Amato per quel copioncino Fellini/Flaiano/Pinelli, respinto e sparlato già da tanti, l’Italia e il mondo ‘La dolce vita’ non l’avrebbero mai avuta. Val la pena sapere com’è nata. ‘Era la cosa più bella che avessi mai letto. Passione ed erotismo…il bello e il brutto della vita…c’era l’incantesimo dell’essere umano’, disse con estatica semplicità Peppino. Un’estasi che pagò cara. Litigi giornalieri con Rizzoli, il suo co-produttore, imbestialito per il lievitare dei tempi, dei costi. Estenuanti bracci di ferro col regista, catturato anima e corpo dal suo tirannico, scintillante Daimon. Prometteva, Federico, ammansiva, si scusava, ma non manteneva. Le cifre, lette oggi, fanno sorridere. Ma era un film italiano, degli anni sessanta, e senza le costosissime star made in USA che De Laurentis, invece, avrebbe preteso.
Quattrocento milioni, aveva stanziato Rizzoli. Non una lira di più. Si arrivò a ottocento, per un film dilatato, sovraccarico, di 4 ore, che fece scappare come lepri tutti gli esercenti. E mise in fuga anche il preziosissimo socio, il Cavalier Rizzoli. Il milanese s’impennò, chiuse i cordoni della borsa, Peppino restò solo. In compagnia del suo primo infarto. Fece in tempo a vedere l’uscita del film, a soffrire gli attacchi forsennati della stampa cattolica che lo ribattezzò ‘La sconcia vita’, mentre la Democrazia Cristiana tramava il sequestro. Ma il pubblico italiano, invece, diede una risposta inattesa, prodigiosa. Affluì subito copiosissimo, in barba ai diktat dei giornali d’ogni forma e colore. Davano retta al cuore, alla pancia. Il film entusiasmava. Accendeva. Eccitava. Parlava. Ti portava con sé. Ti abbracciava. Ti faceva ridere. Ti commuoveva. Ti dava, insomma, tutto quello che un’opera d’arte, in ogni luogo e tempo, ti dovrebbe dare: le ali. Per farti volare alto. E fece in tempo, Peppino, a godersi la consacrazione, con La Palma d’oro a Cannes e la caldissima accoglienza dei francesi.
Nel febbraio del 64, a quattro anni esatti dall’uscita del film che lo aveva così profondamente coinvolto (e travolto), è colto da un secondo infarto e muore. Ha solo 65 anni. Se ci capiterà di rivedere ‘La dolce vita’ – è uno di quei film che fa bene ritrovare – pensiamo anche a lui. A Giuseppe Amato. Dimenticato maieuta di un’opera immensa.
Carlotta Wittig
Interessante la sua fotografica visione del film e del suo Produttore. Grazie!, perché io ‘sta cosa non la sapevo… ed ora apprezzo ancora di più quest’opera.
Ma un grazie anche per la descrizione della trasversale ipocrisia che permea da sempre il mondo, ed in particolare quello “culturale”. Sono certo che negli USA non oseranno allargarsi col giudicare l’opera. Ma non per sincero rispetto, ma per timore di toccare un intoccabile, l’autore dell’opera stessa