Modello Marchionne: non chiamatelo italiano

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Oggi è il giorno dei coccodrilli, molti di questi ipocriti. Tutti quelli che hanno polemizzato con Sergio Marchionne, avversari politici, imprenditori con altre idee, vittime e non vittime dei suoi tagli aziendali, ora lo esaltano, ne ricordano le doti di grande italiano e di grande manager; e tutti quelli che hanno avuto a che fare con lui, blandendolo, corteggiandolo, da Matteo Renzi a Silvio Berlusconi, che addirittura lo ha proposto come premier del centro-destra, si sono impegnati in narrazioni ideologiche, tentando di tirarlo per la giacchetta. E’ il solito costume italico, che sarà dimenticato domani.

In pochi però, in questi concitati e dolorosi momenti per la scomparsa comunque di un uomo importante, dimostrano di conservare una certa lucidità.
Visto che Sergio Marchionne stesso voleva lasciare “un segno”, crediamo che sia corretto riflettere su che tipo di segno abbia lasciato, soprattutto a livello di politiche industriali. Insomma, se esista o meno un “modello-Marchionne” da continuare, esportare.

L’uomo, il manager e l’imprenditore, va detto, è stato coerente con se stesso, la sua filosofia di vita e di lavoro. E in nome di questi suoi valori si è letteralmente sacrificato fino all’ultimo soffio di vita. Sapeva, almeno questo sembra, di essere malato da un anno e ha lavorato fino a che ce l’ha fatta.

Ma non immortalatelo come un grande italiano, nel senso patriottico (culturale ed economico) del termine.
Di italiano e di italianità ha avuto ben poco, solo la nascita. Per il resto è stato legittimamente un cittadino del mondo (residente in Svizzera), senza radici, dentro una visione cosmopolita, con una vocazione e un’ambizione globalista.

Basta riascoltare una delle sue più interessanti interviste (quando ancora non era in Fca), rimandate in onda ieri su lo speciale di La7, per rendersene conto: ha ribadito più volte di non avere il mito delle radici, che tutto va mescolato nel contatto con le differenze che migliorano l’uomo e gli conferiscono una dimensione universale. E ancora: l’economia globale non può essere morale, la moralità è solo individuale, va giocata personalmente.

Decodificato vuol dire capitalismo apolide, centralità dell’economia multinazionale (dove ha lavorato e si è formato), primato del profitto sul lavoro, che presuppone per definizione la delocalizzazione delle aziende (sottratte alla loro storia, al loro territorio, agli Stati nazionali).

E questa è stata la mission di Marchionne, in omaggio alla sua impostazione culturale e professionale: Fiat torinese, Fiat italiana non salvata, ma Fiat trasformata, mondializzata: all’interno di una multinazionale con sede legale ad Amsterdam e sede fiscale a Londra, base in America e qualche stabilimento italiano che prima o poi verrà rottamato. Insomma, Marchionne è stato fedele al rapporto tra produzione-lavoro, rompendo con il concetto di luogo lavorativo, storico e geografico, mandando a casa molti operai, ed eliminando la concertazione con i sindacati (questa operazione amava definirla “distruzione creativa”).

Era l’unico modo per salvare la Fiat, figlia dell’assistenzialismo statale e di un sistema superato? Forse sì. Ma il modello-Marchionne non è un modello italiano, né europeo.
L’Italia oltre alle storture che ben conosciamo, ha prodotto realtà interessanti che andrebbero attualizzate: Enrico Mattei ne è stato il simbolo.

L’economia sociale di mercato (prodotto della dottrina sociale della Chiesa e del liberalismo occidentale), ad esempio, come applicata in Germania, prevede la collaborazione tra datori e lavoratori, la cogestione delle aziende, in alcuni casi la partecipazione agli utili degli operai o l’azionariato operaio, ma soprattutto conserva il radicamento del lavoro nei territori, con istituti di credito che affiancano le aziende.

Gli ultraliberisti e globalismi guardano con disprezzo questo capitalismo nazionale, legato agli Stati, ma certamente Marchionne è stato espressione di interessi non propriamente italiani. O almeno in minima parte.

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