Gli unici che si sono veramente divertiti e che lo sanno fare, sono stati i “magnifici tre”: Claudio Baglioni, Claudio Bisio e Virginia Raffaele. Sciolti, simpatici, bravi, professionali, affiatati, hanno tenuto il palcoscenico, con leggerezza e simpatia, scherzando, cantando, recitando.
Rispetto alle altre edizioni del Festival, almeno per quanto riguarda la prima serata, non c’è stata politica, nel senso becero (magari saremo smentiti nei giorni a seguire), né la tanto attesa polemica contro Salvini. L’accenno di Bisio ai “testi sovversivi” di Baglioni, è volato via come una carezza ironica e quasi infantile. Troppo furbi e troppo intelligenti tutti.
Le sole canzoni che hanno richiamato l’inevitabile e scontato tema dei migranti (Motta, Negrita), non hanno colpito, né “indignato” le coscienze. Un po’ di demagogia, insieme a concetti ideologici stantii, residuo di una sinistra artistica che non c’è più da parecchio. L’impegno da tempo si è trasformato in mero posizionamento marketing.
La kermesse quindi, si annuncia come dovrebbe essere: un grande spettacolo della canzone, dove tra l’altro, è sparita la distinzione tra giovani e veterani, col risultato però, di appiattire musiche, testi e cantanti, in un fritto misto tra la De Filippi, X Factor e Carlo Conti.
Se le precedenti edizioni sono state all’insegna del messaggio civile, della protesta anti-berlusconiana o della normalizzazione renziana (il politicamente corretto), la “seconda volta” di Baglioni, è partita nel segno della nostalgia e del classico (modello-Volo). Ha in alcuni momenti, richiamato il vecchio varietà, il vecchio spartito dei tipici sabato sera italiani. Definitivamente tramontati gli approcci da pensiero unico laicista, come i braccialetti arcobaleno per sostenere le unioni civili.
E nella cerimonia dell’autobiografia della nazione, non potevano mancare due stelle fuori gara, gli ospiti eccellenti che hanno brillato molto più dei partecipanti ufficiali: Giorgia e Bocelli.
A proposito di Bocelli: suggestiva e toccante l’evocazione del rapporto tra padre e figlio, nella consegna canora e nella trasmissione ideale dei valori della vita. Finalmente. Un dna “famigliarista”, in qualche misura richiamato anche da Enrico Nigiotti, nel suo delicato e struggente ricordo del nonno e della tradizione che non invecchia mai.
Il migliore testo in assoluto è stato, almeno per chi scrive, quello di Simone Cristicchi, una preghiera laica di grande intensità, a dimostrazione che la spiritualità può essere declinata in modo autentico e poetico, senza concessioni retoriche o sentimentalismi New Age (temi importanti, come il perdono, la bellezza, la verità, la vita), a conferma di un percorso dell’artista veramente ispirato.
Esattamente il contrario dell’involuzione di Arisa (un affronto rispetto alla sua voce, forse attualmente la più limpida in Italia tra le donne), che propone ormai da anni canzoni-fuga dal pensiero, dal senso del destino e dalla finitezza esistenziale, esaltando un’atarassia esistenziale, una superficialità da non pensiero, del tipo “meglio divertirsi, tanto si muore ugualmente, inutile preoccuparsi”.
La cosa da registrare, nel filo conduttore delle 24 canzoni che ieri si sono alternate, è il fallimento di un’operazione sbagliata, evidentemente studiata a tavolino: l’abbraccio commerciale tra la canzonetta e il rap, occhieggiando ruffianamente a quei giovani lontani dai circuiti classici della musica e dei suoi sponsor, che tra l’altro non vedono Sanremo e odiano la tv istituzionale.
Un abbraccio che si è rivelato un fiasco canoro per i diretti interessati: ragazzotti stile-borgata (tutto orecchini, tatuaggi e abbigliamento da night o da Camorra mediatica), fuori contesto, accompagnati dai sorrisi paternalistici e comprensivi del buonismo festivaliero e dalla sopportazione della platea.
La rappresentazione plastica di questo fallimento, l’abbiamo avuta nel duo Patty Pravo e Briga, una canzone mediocre che ha smosciato tutti e due, auditorio compreso, e che non ha reso giustizia né alla storia di Patty Pravo, né al futuro di Briga.
Se fossimo nei panni dei rapper duri e puri, al di là degli atteggiamenti spavaldi, manifestati nel dopo-festival, non saremmo contenti: la commercializzazione del rap, come è accaduto per l’hard rock, porta fuori zona. La rivolta dei bassi e delle periferie, diventa parodia, giustificata unicamente dal successo, dalla visibilità e dai soldi. E in questo, chi dei rapper accetta la logica dell’integrazione istituzionale, si rivela assolutamente speculare ai “cantanti borghesi” e ai loro miti (sempre i soldi e il successo), che sulla carta dicono di contestare.
L’esibizione di Achille Lauro, col suo inno alla Rolls-Royce, è stata emblematica delle nuove “priorità” sociali del rap, al limite del grottesco. Dove è finita la denuncia? O forse è nato il nuovo nichilismo consumistico?
Per non parlare dell’immancabile giovanotto integrato proveniente dall’Africa, Mahmood, un tentativo patetico.
Se proprio vogliamo tentare di cogliere nei testi un messaggio complessivo dall’esordio di Sanremo, è uno sforzo sociale con relative ricette salvifiche: la crisi della coppia (Anna Tatangelo), gli adolescenti che non dialogano, chiusi in bolle autoreferenziali e autocentrate (Daniele Silvestri), padri che violentano le figlie (Irama), e un figlio che sfotte il padre perché pensa solo ai soldi (ancora Mahmood).
Un panorama plumbeo, specchio di una società in crisi che si rifugia nel passato sicuro.