Nella diretta-dibattito di Sky si è vista la desolante rappresentazione della crisi “magica” del Pd. Della serie “vorrei, ma non posso”. Immagine tv molto berlusconiana, ma con parole antiche, vecchie, superate, almeno di venti anni.
Resta il mistero di fondo: nessuno ha capito quale differenza sostanziale ci sia tra Giachetti, Zingaretti e Martina. E nemmeno si è capita la differenza rispetto agli altri “primaristi”, spariti nel nulla: Calenda in primis.
Crisi magica. Crisi, perché il Pd, ormai da tempo, non esce dall’impasse che lo ha imprigionato e ridotto a partito secondario. Magica, perché i suoi capi e sottocapi, non riescono a liberarsi dalla superiorità morale, che caratterizza le loro parole e i loro atteggiamenti (si ritengono ancora oggi l’incarnazione religiosa del bene, della morale, dell’etica, della democrazia, della libertà, della cultura etc).
E poi, nessuno dei tre ha spiegato con chiarezza quale partito abbiano in mente. E non è solo questione di alleanze (incalzati dal conduttore). Il Pd è, e sarà (ammesso che lo sia stato), un partito laburista, social-democratico, democratico-clintoniano-obamiano, liberal, radicale di massa? Boh.
Costretti ad esporsi sul tema il trio dem è stato molto esplicito nella confusione: Giachetti vorrebbe tornare alla “vocazione maggioritaria” di Veltroni (col 18%?), Zingaretti vorrebbe tornare al “centrosinistra allargato” (perché così il Pd ha vinto in Lazio un anno fa e ha perso con dignità in Abruzzo e Sardegna). Martina vorrebbe puntare «sulle donne e gli uomini del Pd» (“qualsiasi cosa voglia dire, la dice bene”, ha commentato un divertito e divertente Antonio Polito).
E ancora e sempre su tutto, l’ombra di Renzi. Giachetti, Zingaretti e Martina, hanno ammesso che l’ex premier è e resta una presenza pesante (e ingombrante). Li differenzia, infatti, il rapporto che pensano di intrattenere con l’ex premier, che a sua volta, sta aspettando l’esito delle primarie, per decidere la sua strategia: continuare dentro un castello che crolla o costruirne uno alternativo e civico.
Tema forte del confronto tv, quindi, l’eredità di Matteo. Zingaretti non vuole il ritorno di Renzi, Giachetti vuole il ritorno di Renzi, Martina, vuole e non vuole il ritorno di Renzi, perché “bisogna smettere di dividersi in renziani e antirenziani e bisogna tutti essere democratiche e democratici”. Un bel gioco di parole.
Insomma, il nulla vestito di buonismo e di riscatto contro i populismi e le destre.
Una cronaca (la diretta tv) molto virtuale: si sono consolati con le sconfitte onorevoli (in verità, grazie alle coalizioni con le liste civiche) dell’Abruzzo e della Sardegna (dal 40% renziano al 14%% di oggi), e credono di replicare a Salvini e Di Maio con ricette del tipo, “immigrazione continua” (tutti e tre salverebbero gli immigrati in mare, smentendo la formula-Minniti, causa per loro di tanti guai e di imitazione leghista), tutti e tre punterebbero su un reddito di cittadinanza2.0 (cambierebbero quello dei 5Stelle, ma non lo abolirebbero), e odiano ogni forma di legittima difesa e inasprimento delle pene per gestire l’emergenza-sicurezza. Apprezzano questa Europa e non cambierebbero il modello economico attuale (liberista con pochissimo Welfare), anche se enfatizzano collettivamente la “questione sociale”; questione sociale che nasce, va ricordato, dalla mancata gestione dell’immigrazione a 360 gradi (con gli effetti sulla sicurezza che conosciamo), e dal rigorismo economico e finanziario che è stato partorito proprio dalla Ue.
Insomma, un sogno di cartapesta senza nemmeno candidate-donna, protagoniste (che fine ha fatto l’Ascani?), a triste conferma del Pd ex-bandiera dei diritti e dell’emancipazione femminile.
Una regressione senza nemmeno una minima autocritica. E lo dimostra il fatto che né Zingaretti, né Martina, né Giachetti hanno criticato i passati governi a guida Pd: governi calati dall’alto (il Colle), senza legittimazione elettorale, bocciati a tutti i livelli dagli italiani (il referendum del 4 dicembre e il voto del 4 marzo scorso), che hanno sancito l’alleanza dem con i poteri forti, le lobby, gli apparati finanziari e bancari. Trasformandolo nel “partito dei garantiti, dello status quo conservatore”. Un partito laicista dei già tutelati. Dal partito storicamente “degli ultimi”, al partito “dei primi”. Un ottimo viatico progressista per un partito che si definisce di “sinistra”.
Gli iscritti e militanti andranno ai gazebo? Il trio spera in un milione di partecipanti-votanti (ma sarebbe comunque, un numero inferiore al passato). Su una cosa saranno chiari: esalteranno mediaticamente il popolo dem che ha votato e scelto. Cosa? Non si sa. Un nome forse, ma non un prodotto.