Landini scatenato: il governo abbassa le tasse? E io sciopero.

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Indire uno sciopero generale contro una manovra che abbassa le tasse a tutti i lavoratori, anzi proprio perché abbassa le tasse a tutti i lavoratori, è una di quelle cose che in un certo senso rassicurano. Perché in questi mesi avevano cominciato a sentirci – tra Fitch che ci alza il rating sul debito dopo vent’anni, la Commissione Europea che ci fa i complimenti per le riforme e la Merkel che ammette d’invidiare la nostra gestione della pandemia – quasi un paese normale.

Per fortuna è arrivato Landini a ricordarci che no, siamo ancora il paese di Tafazzi, sempre pronti a rovinare tutto da soli quando le cose cominciano a girare per il verso giusto. Non c’è altro modo per spiegare la decisione di Cgil e Uil (la Cisl per fortuna si è sfilata) di invitare i lavoratori ad astenersi dal lavoro il prossimo 16 dicembre perché ci vuole “una più efficace redistribuzione della ricchezza, per ridurre le disuguaglianze e per generare uno sviluppo equilibrato e strutturale e un’occupazione stabile”.

L’oggetto del contendere, a sentire i sindacati, è la riduzione del gettito Irpef di 7 miliardi l’anno previsto dalla prossima legge di bilancio, che favorirebbe troppo i redditi medi (quei riccastri che portano a casa ben 1800 euro al mese) a scapito dei meno abbienti, tra i quali ovviamente figurano i milioni di evasori fiscali dei quali Landini e Bombardieri non sembrano preoccuparsi troppo. I leader dei due sindacati fingono però di dimenticare che l’esecutivo ha disposto anche la conferma di cittadinanza nonostante la fiera opposizione di buona parte della stessa maggioranza, il rafforzamento degli ammortizzatori sociali, gli 800 milioni per contrastare il caro bollette, la garanzia statale destinata ai giovani sotto i 36 anni che chiedono un mutuo per la prima casa, le 30mila nuove assunzioni per gli asili nido.

Certo, si può fare meglio – si può sempre fare meglio – ma scegliere la misura estrema dello sciopero generale, che equivale a una bocciatura totale della manovra, suona davvero come una reazione fuori misura. E in effetti il problema di Landini non sono certo le misure, generose e di sinistra come neanche nei governi Prodi, ma il fatto che Draghi non abbia lasciato che fossero i sindacati a dettare l’agenda. Li ha invitati più volte a palazzo Chigi, li ha ascoltati, ha accettato correttivi alle sue proposte ma non si è fatto riscrivere la bozza di legge. Tanto è bastato alla CGIL per decidere di far saltare il tavolo in un momento delicatissimo, ignorando il fatto che per venire incontro alle esigenze di lavoratori e pensionati il premier aveva scontentato persino Confindustria, che avrebbe voluto che i 7 miliardi destinati al taglio dell’Irpef andassero invece alle aziende.

L’impressione diffusa è che Landini volesse approfittare della debolezza dei partiti della maggioranza, schiacciati dall’autorità di Draghi e costretti a inseguire ogni decisione del premier, per imporsi come unico interlocutore del governo e arrivare a dettagli l’agenda. Tentativo ovviamente respinto. Ora Landini ha deciso di giocare il tutto per tutto spostando il confronto dai tavoli alle piazze, accettando il rischio che un mezzo flop della protesta – ricordiamolo, protesta contro un taglio delle tasse generalizzato e aiuti mai visti negli ultimi vent’anni – lo costringa in un angolo, come accaduto qualche mese fa a Salvini con i “ragionevoli” Zaia e Giorgetti a fare la parte della Cisl. Forse delle piazze mezze vuote saranno più eloquenti dello stesso Draghi.

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