Magistrati più deboli, ma nessuno sa sciogliere il nodo-giustizia

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Meno del cinquanta per cento dei magistrati  ha aderito allo sciopero indetto dall’Anm contro la riforma della giustizia firmata Cartabia e che è in procinto di passare in Senato per l’approvazione definitiva.

È un flop, a suo modo, epocale perché rivela l’indebolimento politico di una categoria, i magistrati, che fino a pochi anni fa era di fatto l’arbitro della vita pubblica italiana, una categoria che martellava inesorabilmente governo, parlamento, assemblee rappresentative varie e che non è mai stata chiamata a rispondere di errori e arbitrii commessi in vari casi, anche e soprattutto quando questi errori e questi arbitrii hanno distrutto la vita, non di personaggi potenti, ma di poveri cittadini qualunque.

A questa sconfitta delle toghe, l’opinione pubblica nazionale non sembra aver fatto molto caso. E questo un po’ perché l’attenzione generale continua a essere prevalentemente diretta alla guerra in Ucraina, un po’ perché  le questioni della giustizia si presentano normalmente con tecnicismi considerati piuttosto ostici dalle persone comuni.

Eppure questo delicato passaggio avviene nel bel mezzo di un processo di riforma che dovrebbe in teoria rappresentare un riequilibrio dei rapporti tra magistratura e politica, se non addirittura una rivincita della seconda sulla prima. Sono davvero lontani i tempi del celebre “resistere, resistere, resistere” lanciato nel 2002 da Francesco Saverio Borrelli contro l’allora governo Berlusconi. E vale anche la pena ricordare che l’ultimo sciopero indetto dai magistrati (nel 2010, sempre contro un governo Berlusconi) vide una partecipazione intorno all’85 per cento. Oggi la sensazione è quella di una sorta di regolamento di conti tra poteri. «A Montecitorio –ha scritto Luciano Violante poco prima dell’approvazione in prima battuta del testo della legge- la maggior parte della proposte ha carattere punitivo, come se una parte del mondo politico intendesse consumare una vendetta nei confronti della magistratura».

Quello che comunque dovrebbe maggiormente interessare i cittadini è che la legge restituisca smalto all’amministrazione della giustizia e corregga le storture della lottizzazione tra correnti all’interno del Csm, come nelle vicende denunciate da Palamara.

Alcune norme sembrano andare in tale direzione come quelle sugli incarichi direttivi  negli uffici giudiziari che evitano le cosiddette “nomine a pacchetto” (tipiche espressioni di una logica di scambio tra correnti). O come il divieto di liste nei collegi per eleggere i membri togati del Csm: ciascun candidato si potrà presentare liberamente nel proprio distretto senza l’obbligo di un minimo di firme in appoggio.

Una misura per evitare le “incriminazioni facili” che distruggono la vita di cittadini innocenti e intasano i tribunali è il fascicolo personale sulla professionalità del singolo magistrato: tra i principali criteri di giudizio c’è quello della sorte di ogni singolo procedimento nei successivi gradi di giudizio, nel senso che risalterà se un pm tende a incriminare persone che nella maggioranza di casi sono poi assolte in Appello o in Cassazione.

Altro punto qualificante è quello sulla separazione delle funzioni: soltanto una volta, nel corso della carriera,  si potrà passare da pm a giudice e viceversa. C’è poi la norma che vieta le “porte girevoli” con la politica. I magistrati che diventano parlamentari o assumono cariche politiche non possono, scaduto il mandato, tornare tra i ranghi dell’ordine giudiziario.

Nel complesso, la riforma presenta alcuni passi avanti, ma non risolve alcune, gravi questioni  di fondo come l’onnipotenza dei pm e la lunghezza dei processi. Per risolvere questi problemi ci vorrebbero modifiche costituzionali, a partire dalla separazione delle carriere (è diversa e ben più impegnativa rispetto alla semplice separazione delle funzioni) , una questione certo delicatissima, ma che in un modo o nell’altro dovrà essere risolta, evitando ovviamente gli eventuali condizionamenti che potrebbero minare l’indipendenza della magistratura.

La politica non sembra però possedere oggi la visione necessaria a una riforma complessiva dello Stato. Se il potere di pressione  dei magistrati s’è ridotto, non per questo la politica ha recuperato forza e autorevolezza. Chissà quanto dovremo  attendere ancora prima che i nodi della giustizia siano realmente sciolti.

 

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