Zelensky al Festival, perché sì. Sanremo è sempre Sanremo

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Quello che non sopporto è l’ipocrisia come cifra politica e morale. Tutti quelli cioè, che da Salvini, Calenda fino a Freccero, ritengono fuori luogo la presenza di Zelensky a Sanremo, e che in realtà ce l’hanno col nuovo, ulteriore invio di armi a Kiev, sempre meno difensive e sempre più offensive, con buona pace del ministro Crosetto, autore di frasi totalmente irresponsabili (“questa fornitura serve a scongiurare la terza guerra mondiale”, quando è proprio tale escalation inutile, dati alla mano, a crearne le condizioni).

Almeno i “negazionisti di Sanremo” (nel caso di Salvini), abbiano il coraggio di confliggere, scontrarsi con gli alleati (l’ultra-atlantismo anni Settanta della Meloni e di Berlusconi), rappresentando finalmente quella stragrande maggioranza di italiani contrari alle armi a getto continuo e illimitato; e nel caso degli intellettuali, che abbiano il coraggio di fare come Conte o certa sinistra doc, organizzando un movimento di massa “contro”, non vellicando un pacifismo solo di pancia o da salotto tv.

Si dice che non bisogna spettacolarizzare la guerra: ma ci siamo accorti che da decenni orami è tutto uno spettacolo? Un circo perenne e ansiogeno del dolore, del Covid, del vaccino, dei morti, della catastrofe climatica ed energetica?
Qualcuno conosce la differenza tra realtà e propaganda, tra verità e narrazione?

C’è qualcuno che capisce cosa realmente stia accadendo in Ucraina, chi vince, chi perde, le ragioni iniziali della guerra, quelle successive, quelle attuali, quelle future? Di fronte, ad esempio, ad un Putin che parla di “operazione speciale”, e un Zelensky che parla di “riposizionamento strategico” quando arretra sul campo; e soprattutto di fronte a tv e giornalisti, palesemente schierati “dalla parte giusta”, che prendono per oro colato le sole fonti Usa, Nato e Ue?

E allora, in tale contesto teatrale, ci sta benissimo il presidente “pupazzo Usa”, Zelensky a Sanremo; festival trasformato da decenni in luogo istituzionale dell’autobiografia presunta della nazione, in un contenitore-certificatore del politicamente corretto.
Da un lato, ci sarà quindi, il presidente ucraino, che oltre a fare la guerra e impostare la sua comunicazione modello-fiction (imperversa ovunque, nei parlamenti internazionali, nei premi cinematografici, nelle competizioni musicali), giustificato dall’esigenza di sensibilizzare il mondo contro l’orso sovietico; e dall’altro, mamma-Rai, ardimentosa di farsi pubblicità e acquistare share e pubblicità, in linea col nuovo corso governativo. Tutti contenti e rimborsati.

A Sanremo assisteremo pertanto al comizio di Zelensky e all’esaltazione dell’amore fluido, in salsa Lgbt (si legga pensiero unico). E per questa impostazione del servizio pubblico, nessuno ha fatto le barricate, né raccolto firme. C’è da scommettere, ad esempio, sull’inevitabile omelia laicista della campionessa di pallavolo Paola Egonu. Per non parlare degli artisti: testimonial noti o di fatto organici, vicini all’ideologia arcobaleno (inutile distinguere tra moda e sostanza): Paola e Chiara, Anna Oxa, Marco Mengoni, Rosa Chemical, all’anagrafe Manuel Franco Rocati, famoso rapper, Madame e Levante.
Tutte posizioni legittime, ma indicative di valori che si pensano e si ritengono oggettivi, nel nome dei diritti civili, ma che in realtà sono espressione di una modernità unicamente laicista.

Sanremo è sempre Sanremo, lo è sempre stato: ricordiamo il monologo di Rula Jebreal, i nastri arcobaleno (indossati da Ruggeri, Noemi, Patty Pravo, Eros Ramazzotti, non dagli Stadio che poi vinsero l’edizione del 2016); ricordiamo i messaggi in codice di Benigni, la presenza di Gorbaciov, i metalmeccanici e il tentativo di suicidio al tempo di Pippo Baudo; e lo stesso Grillo nelle vesti di comico già para-politico.
Concludendo: seguendo questa “regia” ci sta bene pure Zelensky.

 

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