Stazioni ferroviarie deserte, treni spariti, aerei fermi negli hangar, viaggiatori stressati, strepitanti, urlanti. Benvenuti nella disciplinatissima e ordinatissima Germania, patria del più grande sciopero dei trasporti da una trentina d’anni a questa parte.
I giornali tedeschi l’hanno chiamato Mega-Streik, maxi sciopero, perché ha fermato chiunque abbia tentato di mettersi in viaggio con un mezzo che non fosse la sua auto; persino i traghetti in servizio lungo i fiumi si sono fermati. E questo era solo un assaggio, almeno a sentire l’agguerritissimo sindacati Ver.di (nessun apparentamento col quasi omonimo partito politico), di fronte al quale la Cgil di Landini fa la figura di un gruppetto di moderati.
Quello di questa settimana è stato un avvertimento per far capire quello che potrebbe succedere se il rinnovo dei contratti di ferrovieri e autotrasportatori non consentirà ai lavoratori di recuperare la totalità dei soldi persi a causa dell’inflazione a due cifre che nel 2022 ha messo a dura prova le finanze delle famiglie. Il problema, come ben sanno gli studenti al primo anno di economia, è che gli aumenti salariali sono una delle principali cause d’inflazione; se gli stipendi saliranno cresceranno anche i prezzi, attivando una spirale che potrebbe portare gli aumenti a percentuali mai più viste in Germania da almeno cinquant’anni.
Il problema è quindi che sarebbero proprio i lavoratori tedeschi, a parole così nemici dell’inflazione, a causare un impennarsi dei prezzi che si potrebbe riversarsi sul resto d’Europa, con conseguenze immaginabili. Il governo sembrerebbe intenzionato a mostrarsi arrendevole perché, dopotutto, di soldi pubblici la Germania può spenderne quanti ne vuole, senza necessariamente essere costretta a rifarsi con un aumento delle tasse. Venire incontro alle richieste dei sindacati costerebbe circa cinque miliardi l’anno, non proprio bruscolini ma certo una cifra accettabile per un paese che è in grado di finanziarsi praticamente a costo zero.
Ma neanche l’esecutivo potrebbe poi fermare l’aumento generalizzato dei prezzi, le cui conseguenze sono imprevedibili. Per ora Scholz, come suo costume, si nasconde, mandando avanti il suo durissimo ministro delle Finanze, il liberale Christian Lindner, secondo il quale è finito il tempo degli aiuti per tutti ai quali i tedeschi si erano abituati durante la pandemia, e che occorre fare qualche sacrificio ora per non doverne imporre di maggiori dopo. Ma il popolo tedesco, così incline a far stringere la cinghia ai partner europei, è molto meno disposto a imporne a se stesso, e c’è già chi paventa uno scenario alla francese, con le strade paralizzate dalle proteste come quelle di Parigi, messa a ferro e fuoco dalla decisione di Macron di alzare l’età pensionabile fino a 64 anni.
Per ora le posizioni dei datori di lavoro e dei sindacati sono troppo lontane per sperare in un compromesso: i primi offrono aumenti del 5% circa (in linea con quanto ottenuto dai dipendenti privati, i quali però possono contare su maggiori benefit e premi una tantum); i secondi chiedono il doppio e non sembrano disposti a trattare, forti anche del fatto che la mancanza di manodopera qualificata rafforza la posizione dei lavoratori. Così forte da convincersi che è forse il momento di uno scontro frontale, quello che potrebbe finalmente schiantare il cancelliere più incolore della storia della Germania democratica.