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Addio a Re Giorgio, il presidente “interventista”

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Quando, dopo circa tre ore di colloquio tra Matteo Renzi e Giorgio Napolitano, la porta dello studio presidenziale non si apriva, Nicola Gratteri, procuratore antimafia a Catanzaro e ministro della Giustizia in pectore, capì: «Stanno litigando per colpa mia». In effetti per il presidente del Consiglio incaricato non ci fu verso di superare le resistenze del Capo dello Stato, che riteneva inopportuna la nomina di Gratteri a guardasigilli in quanto magistrato in servizio.

Giorgio Napolitano era così: scrupoloso e inflessibile, severo custode del dettato costituzionale. Ai cronisti spiegò: «Nessun braccio di ferro. Il governo che ci è stato presentato ha ampi caratteri di novità che spiegano ad abundantiam il tempo impiegato per la sua composizione». Stop ai retroscena e a Renzi.

“Re Giorgio” si è spento a 98 anni, alla fine di un lungo ricovero in una clinica romana, «non senza – commentano i medici – aver affrontato la malattia con tempra e coraggio». Se ne va un altro protagonista della politica italiana, più silente di tanti leader del pentapartito, ma altrettanto influente. E non meno controverso e inviso a una parte del centrodestra in alcuni frangenti nevralgici della recente storia repubblicana. Può dunque attagliarsi anche a Napolitano l’appellativo di presidente interventista? Sì, anche se non è mai emersa in lui una volontà antidemocratica che gli derivava forse dall’antica indole di (ex) comunista. Chi lo conosceva bene sosteneva che il suo assillo era quello di giungere al reciproco riconoscimento tra schieramenti al fine di affermare una democrazia dell’alternanza che stabilizzasse il bipolarismo.

Illuminante la descrizione che Francesco Cossiga, il Picconatore, diede del presidente della repubblica al quirinalista del Corsera Maurizio Breda del pantano nel quale si muovono spesso i Capi dello Stato: «I nostri sono poteri altissimi e vaghissimi, imprecisati e imprecisabili. Il risultato è che la più alta carica dello Stato alle volte spara a palle incatenate e in altri sparge ovatta per coprire facoltà sovranamente indiscutibili». Sicché è innegabile che anche Napolitano sia stato protagonista di alcune manovre “infernali” (cit. Breda) di cui è lastricata la strada che porta al Quirinale. Per questo, Napolitano, primo presidente comunista,  è apparso agli occhi del centrodestra capo dell’opposizione o capo della maggioranza a seconda del momento storico.

Con Silvio Berlusconi i rapporti non furono mai distesi. La rottura insanabile avvenne l’8 novembre 2011, giorno in cui il Cavaliere comprese di non avere più una maggioranza parlamentare alla Camera, situazione che determinò una serie di attacchi speculativi ai titoli di Stato. Napolitano si accordò con Berlusconi affinché si arrivasse alle dimissioni del suo governo non appena si fosse approvata la legge di bilancio. Il giorno successivo, il presidente della Repubblica nominò Mario Monti senatore a vita, mossa interpretata dai commentatori e dai mercati finanziari come l’indicazione di un probabile successivo incarico dell’economista al ruolo di presidente del Consiglio. Cosa che puntualmente avvenne dopo la promulgazione della manovra di stabilità.

In quei giorni il New York Times celebrò Napolitano attribuendogli il soprannome di “King George” con il chiaro riferimento a re Giorgio VI del Regno Unito, per la sua esemplare difesa delle istituzioni democratiche italiane al di là delle prerogative presidenziali e per il ruolo da lui svolto nel passaggio dal governo di Silvio Berlusconi a quello di Mario Monti.

Tuttavia il centrodestra, stretto intorno a Silvio Berlusconi, lesse questa manovra come la chiara volontà del presidente della Repubblica di deporre il leader eletto dal popolo per consegnare il Paese ai poteri forti d’Europa. Anche da altri ambienti si sottolineò il modus operandi di Napolitano, accusato di aver esteso i suoi poteri facendo prevalere pregiudizialmente i suoi giudizi di merito sulla vita politica del Paese. D’altronde, Berlusconi non aveva mai fatto mistero di considerare il Capo dello Stato un avversario: a poche ore dalle elezioni del 2008 disse: «In caso di vittoria non intendo dare all’opposizione la presidenza di una Camera. Se tuttavia, avendo loro anche il Quirinale, il presidente della Repubblica decidesse di dimettersi… allora ci si potrebbe pensare».

La navigazione in acque agitate non precluse a Napolitano di diventare il primo presidente a ricoprire il secondo mandato. Il 20 aprile 2013 fu rieletto quasi con un plebiscito parlamentare, che inauguraò con un discorso non certo tenero all’indirizzo dei partiti. Per settant’anni al servizio della politica, con un’iniziale frequentazione del Gruppo universitario fascista, nel 1945 entrò nel Partito comunista italiano diventandone uno dei dirigenti di alto rango. Fu fiero osservante della dottrina sovietica fino a considerare necessaria la repressione in Ungheria. Col tempo, tra i pochi grandi leader del Pci, moderò le sue posizioni fino a diventare capo della corrente migliorista del Pci, che guardava con attenzione ai rapporti con il Partito socialista. Commentando i fatti d’Ungheria ripeté più volte di vivere «un grave tormento autocritico».

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