Tutti pazzi per Napolitano. La sinistra enfatizza, la destra in troppi casi è vittima dell’ipocrisia. Ovviamente fa parte dello stile istituzionale rendere omaggio a chi scompare, specialmente se ha svolto un ruolo oggettivamente importante nella storia della Repubblica.
Ma la scelta delle parole usate da molti di quelli che stanno partecipando ora al lutto, dalle visite al feretro alle dichiarazioni altisonanti, sa di mera retorica.
E’ giusto guardare preferenzialmente ai lati positivi di chi ci ha rappresentati per tanti anni, come è giusto porsi in modo più tollerante rispetto ai passaggi fondamentali e ai misteri della nostra esistenza (la vita, la morte, la malattia etc), ma il lessico riguardo le più alte figure pubbliche deve essere storicizzato, sobrio, oggettivo, non strumentale, fazioso, da comizio.
E’ un dovere proprio perché si tratta di esempi da ricordare e seguire.
Nonostante il Palazzo (papa Francesco compreso) stia incensando e santificando il presidente-patriota emerito Napolitano, la prima cosa da ammettere è che è stato un capo di Stato divisivo. Esattamente come se al Quirinale fosse andato Berlusconi. Lo si è visto dai fischi negli stadi (a Milano con Verona-Milan, e a Roma, protagonista la curva Nord della Lazio), ultime valvole di sfogo di una società totalmente compressa dal politicamente corretto.
Quello che ha intonato la curva bianco-azzurra, non è stato e non è, un inno di estrema destra, ma il canto dei giovani ungheresi (viene cantato pure nelle scuole), ripreso dalla gioventù occidentale anticomunista contro l’invasione sovietica.
Lui da dirigente del Pci, incarnando gradualmente l’anima “migliorista-riformista” della sinistra ha salito le scale del potere. E ha gestito le sue funzioni in modo indubbiamente singolare rispetto agli altri presidenti.
Infatti, la lista dei capi di Stato è variegata e interessante: dopo il referendum Monarchia-Repubblica, abbiamo avuto monarchici (De Nicola ed Einaudi), sospettati a vario genere (Segni, Leone), picconatori (Cossiga), ex partigiani, figli della guerra civile (Pertini, il più amato), e tanti arbitri a 360 gradi: Ciampi, il pacificatore (il Giubileo della nazione), Scalfaro (uomo umoralmente di parte), Napolitano (arbitro e capitano in alcuni momenti), e attualmente Mattarella. Anche lui oscillante tra l’essere il promotore attivo della legalità costituzionale e il capitano su alcuni temi ritenuti vitali per la sicurezza, la stabilità economica e la salute dei cittadini (l’euro, i vaccini, questa Ue).
Napolitano lo possiamo giudicare su due livelli: il comunista e l’uomo di Stato. Da membro del Pci, ha spiegato a modo suo l’eccidio dei nove giovani monarchici di via Medina a Napoli nel 1946, e ha giustificato l’invasione sovietica dell’Ungheria, paese caduto ostaggio della controrivoluzione, come necessario elemento di stabilità e normalizzazione geo-politica (a quel tempo c’era l’Europa di Jalta). Piccole macchie superate dal tempo. Del resto, l’intera classe politica di veterani ancora sulla breccia, a destra come a sinistra, ha attraversato fasi ambigue, radicali, giustificate dallo spirito del tempo, dalle ideologie e dalle passioni civili.
Se giudicassimo il valore di tanti politici che hanno esercitato funzioni apicali (ministri, capi di governo, direttori di giornali, leader di partito) sulla base del passato si salverebbero in pochi.
Ognuno ha il diritto e il dovere di cambiare e correggersi.
Come uomo di Stato Napolitano ha impresso di suo pugno una svolta dirigista alla Repubblica. Naturalmente tutto nella prassi costituzionale, ma certamente più un timbro da monarchia repubblicana che da repubblica parlamentare (si legga operazioni dall’alto, nella caduta dei governi e nella scelta delle alternative).
Un giorno si farà veramente luce sulla fine del governo Berlusconi e l’arrivo del tecnico Monti, con quello che ha significato allora e successivamente il commissariamento dell’Italia da parte dei poteri forti internazionali. Altro che patriottismo.
Ecco perché in queste ore massimo rispetto per l’uomo e per il suo percorso, ma obiettività nell’uso delle parole.