Doccia fredda per Marco Cappato, a giudizio per aiuto al suicidio nella nota vicenda legata alla morte di Dj Fabo avvenuta in una clinica svizzera. Mario Adinolfi gli scrive una lettera con la quale sembra impartirgli una grande lezione di civiltà giuridica.
L’Avvocatura dello Stato si è costituita presso la Corte Costituzionale dopo che il Tribunale di Milano, chiamato a giudicare Cappato con la suindicata ipotesi di reato, ha sollevato il dubbio di costituzionalità dell’articolo 580 del codice penale che recita: “Chiunque determina altri al suicidio o rafforza l’altrui proposito di suicidio, ovvero ne agevola in qualsiasi modo l’esecuzione, è punito, se il suicidio avviene, con la reclusione da cinque a dodici anni. Se il suicidio non avviene, è punito con la reclusione da uno a cinque anni, sempre che dal tentativo di suicidio derivi una lesione personale grave o gravissima”.
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L’Avvocatura dello Stato con questa iniziativa punta in pratica a difendere la legittimità dell’articolo incriminato, decisione che fino all’ultimo minuto sembrava in discussione, vista l’emotività che la vicenda di Dj Fabo ha provocato nell’opinione pubblica. Al punto che, in questi ultimi giorni, illustri giuristi erano intervenuti evidenziando come l’eventuale rinuncia dello Stato a costituirsi avrebbe rappresentato un pericoloso precedente.
Invece alla fine i principi giuridici sono sembrati prevalere sulle convinzioni ideologiche e sebbene nessuno auguri a Marco Cappato di finire condannato, non è neanche accettabile la pretesa di derogare ad una legge dello Stato tuttora in vigore che configura chiaramente la fattispecie incriminata e ne stabilisce anche la pena. Il pubblico ministero ha chiesto per Cappato l’assoluzione, ma i giudici di Milano sono sembrati in evidente difficoltà. Il fatto che abbiano chiesto un pronunciamento dell’Alta Corte è stato interpretato da tanti come un tentativo di tirarsi fuori dalla responsabilità di una condanna che, codice penale alla mano, apparirebbe inevitabile. Ma quale altro comune cittadino, si chiedono molti, avrebbe goduto di un trattamento comunque ritenuto “di favore”, di fronte ad un’ipotesi di reato che appare evidente e chiaramente regolamentata dal codice?
Marco Cappato non l’ha presa bene e ha puntato il dito contro la legge, definendola retaggio del codice fascista. Peccato però che nessuno finora l’abbia abolita e finché una norma è in vigore, discutibile quanto volete, va rispettata. Ed è ciò che ricorda all’esponente radicale il leader del Popolo della Famiglia Mario Adinolfi in una lettera pubblica.
“Hai ragione – scrive Adinolfi a Cappato- buona parte delle norme italiane risalgono all’epoca fascista, alcune al codice napoleonico, altre ancora addirittura al diritto romano. Se Cappato ci porge orecchio proveremo a depositare una pulce: le norme fondamentali del vivere civile hanno millenni e millenni di storia. Ricordi Marco? Non uccidere, non rubare, non dire falsa testimonianza. Volendo stare nello specifico, ben prima del 1930 e del fascismo, diciamo pure un venticinque secoli fa, nel giuramento d’Ippocrate i medici affermavano: ‘Non somministrerò ad alcuno, neppure se richiesto, un farmaco mortale, né suggerirò un tale consiglio; similmente a nessuna donna io darò un medicinale abortivo’. Esistono principi che non hanno tempo, Marco. Sono iscritti nel diritto naturale della persona umana”.
Adinolfi prosegue ancora: “Se una persona sale sul cornicione di un palazzo può avere tutte le ragioni del mondo ma tu non puoi rispettare la sua autodeterminazione e spingerla giù. Devi evitare che si suicidi. Se aiuti il suo proposito suicidiario, devi andare in carcere, Marco, altrimenti la vita dei fragili diventerà un inferno e i fragili vanno aiutati a vivere, non a morire. Se la legge è legge – conclude – e non una presa in giro, per l’articolo 580 del codice penale italiano sei colpevole di aiuto al suicidio. E tu lo sai bene”.