Berlusconi e Calenda. Il tragico destino delle cene politiche italiote

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Soldi, leggi, posti di lavoro, valori? No, pare che la Repubblica italiana resti ancorata al suo luogo comune: italiani, pizza e mandolino.
E infatti, la politica, specchio fedele della società civile o incivile, sta riscoprendo il vizio delle cene.

Un vizio da seconda Repubblica (almeno quelli della prima erano più sobri). Incontri strategici e intimi, con capi e bracci destri, a base di pesce, pasta e dolci. Luoghi dove, sulla carta, si abbassano le frizioni e i conflitti e prevale il buon senso (almeno dovrebbe), prevalgono la serenità e le alleanze da fare, sulle pulsioni individualiste e le strategie personali.

Ma la moda delle cene è anche il segnale di un “tarallucci e vino” deprimente, nel segno del livellamento in basso, della falsità, che rappresentano anche l’altra faccia della medaglia.
Di solito gli organizzatori delle cene sono i diretti interessati, quelli che dettano le carte, i “maestri di tavola” che, guarda caso, nel Vangelo (le nozze di Cana) sono il male. Sono quelli che hanno uno scopo. Organizzano con un loro progetto. Un progetto che spesso naufraga.

Questa è la chiave per capire, ad esempio, il fallimento della convocazione culinaria dem di Calenda, neo acquisto che già rompe molti equilibri, e assertore del fronte repubblicano anti-populisti; summit che prevedeva la presenza di Zingaretti (l’unico candidato ufficiale alle primarie del suo partito), Minniti, Gentiloni e Renzi. Cena saltata per il vespaio di polemiche seguite alla notizia e stoppata ufficialmente dallo stesso Renzi. Dimostrazione evidente dello stato dell’arte quasi comico del Pd. In crisi culinaria e politica.

E questa, la citazione biblica, è pure la chiave per comprendere il fallimento certo dell’altra cena: quella del Cavaliere con Salvini ad Arcore, e con i due numeri due (Tajani e Giorgetti), organizzata per riprendere, recuperare il leader leghista nell’alveo del centro-destra berlusconizzato, abbandonato dalla Lega per scrivere il contratto di governo con i grillini. Cena in cui si è stabilita una sorta di “do ut des”: Foa in cambio delle tasse sulla pubblicità tv e accordi per le regionali.
Un’intesa solo di una sera, più tattica che strategia, che sicuramente sarà vanificata dall’interesse di Salvini a mangiare tutto il consenso di Fi e Fdi e continuare la visibilità di governo, apripista per il suo consenso ormai plebiscitario.

Del resto, le cene famose nella storia repubblicana, sono sempre finite così: il patto della Crostata a casa Letta (1997), presenti Letta, Berlusconi, Fini e Marini, fu un disastro, saltò tutto l’impianto di riforma dello Stato (federalismo, semi-presidenzialismo e cambiamento del sistema elettorale). Il 13 agosto del 1994 nella villa di Arcore, Bossi fu invitato da Berlusconi, per una riappacificazione. Ma il primo governo di centro-destra cadde ugualmente (il ribaltone). Proprio per colpa del Senatur. E ancora: nel luglio del 1994 a Gallipoli, durante un pranzo in riva al mare, a base di frutti di mare, Buttiglione e D’Alema si videro in semi-segreto per scrivere un’intesa sul modello elettorale a doppio turno, ma l’intesa non andò mai in porto.

Cene e fini tragiche, strettamente legate, come la politica nostrana.

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