Avvocato di strada: «La legge sul diritto alla residenza va cambiata»

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«Tutelare i diritti degli ultimi significa tutelare i diritti di tutti. Non ci stanchiamo mai di ripeterlo e per ribadirlo ancora una volta abbiamo pensato di organizzare, in concomitanza con la Giornata mondiale della povertà, il Festival dei diritti delle persone senza fissa dimora, che ha ospitato numerosi relatori di prestigio, ma era aperto a tutti coloro che si sentono vicini ai nostri temi». Antonio Mumolo, avvocato giuslavorista, 59 anni, brindisino, è il presidente nazionale di Avvocato di strada, l’associazione bolognese che da vent’anni aiuta gli invisibili e i senzatetto. «Rappresento lo studio legale più grande e più povero d’Italia: mille soci volontari e non un centesimo di fatturato. Da noi non paga nessuno. Nel 2001 abbiamo vinto la prima causa: ne sono seguite altre 40mila. Perché, come ci ripetiamo sempre, non esistono cause perse. E’ il nostro motto».

Quali elementi nuovi sono emersi dal festival?

«Abbiamo affrontato i tre argomenti fondamentali per le persone senza fissa dimora: lo sfruttamento di chi arriva in Italia senza sostegno o di tanti italiani che precipitano nella condizione dell’invisibilità; il diritto alla salute per le persone che senzatetto perdono qualunque forma di assistenza sanitaria; il diritto alla residenza, che è la madre di tutte le battaglie. Sembra assurdo in un Paese come l’Italia, ma è proprio così. La proposta più interessante venuta fuori dal confronto, per venire alla domanda, è quella di rivolgersi direttamente al ministero dell’Interno, che è già compente per questioni di ordine pubblico, e non ai Comuni per ottenere la residenza. Chiederemo al ministero anche di emanare una circolare con una interpretazione univoca della legge perché i Comuni tendono a interpretarla in maniera diversa».

Perché la residenza alle persone senza fissa dimora è la questione più importante?

«La legge italiana collega alla residenza una serie di diritti di base: senza, non si può ottenere un lavoro; non si può avviare un’attività autonoma; non si può chiedere il reddito di cittadinanza; non si può beneficiare di alcun sostegno sociale; non si ha diritto al voto e soprattutto nessun diritto alla salute. Una persona che finisce in strada non si può curare, riceve solo prestazioni di pronto soccorso. Allora può decidere di lavorare in nero e farsi sfruttare dal caporale di turno».

Come avete risposto a questo paradosso normativo?

«Abbiamo fatto approvare nel dicembre scorso in Emilia Romagna una legge regionale, la prima in Italia, per riconoscere il diritto alla salute e il medico di base anche a coloro privi di fissa dimora. Una legge simile è stata poi varata in Puglia, mentre se ne discute in altre regioni. Abbiamo presentato la legge anche a livello nazionale, ma l’iter si è bloccato per via dell’interruzione della legislatura».

Come si diventa poveri?

«Una persona ha cinquanta o sessant’anni, lavora in un’azienda e l’azienda fallisce, perde il posto di lavoro, si ritrova con qualche piccolo risparmio e l’indennità di disoccupazione, consuma queste risorse, viene sfrattato perché non paga più la pigione e finisce per strada. Poi ci sono coniugi separati, imprenditori falliti, artigiani colpiti dalla crisi, anziani con pensioni da fame. Chi finisce in strada viene cancellato e perde per sempre la residenza, diventa invisibile e difficilmente riemerge. Pazzesco»

Su questo problema enorme gli enti locali sono più miopi o più impreparati?

«L’uno e l’altro. Ma anche timorosi. In una nostra ricerca, facilmente rintracciabile sul nostro sito (avvocatodistrada.it), che si chiama “Senza tetto non senza diritti”, abbiamo intervistato i trecento comuni più grandi d’Italia compresi quelli limitrofi della cintura urbana. E abbiamo ricevuto risposte assurde, incredibili, peraltro scritte, non orali».

Tipo?

«”Io i poveri non li faccio entrare”, “io do la residenza solo a chi è nato qui”, “non se ne parla per chi ha precedenti penali”. Ma la legge non dice questo, dice altro. Quindi io che sono di Brindisi non avrei mai potuto ottenere la residenza a Bologna. Penso che nei Comuni ci sia un misto di timore economico, di impreparazione, di atteggiamento politico e soprattutto di impostazione culturale. In questo Paese la povertà è vissuta come se fosse una colpa grave. Sei povero perché non hai voluto lavorare, la colpa è tua e se la colpa è tua devi essere punito. L’atto amministrativo che ti nega la residenza è in fondo una sorta di punizione. Finché la povertà sarà considerata una colpa e non come uno status nel quale tutti possono precipitare sarà dura e le risposte politiche non arriveranno».

Domanda scherzosa, avvocato Mumolo. Voi incarnate enormi situazioni di disagio sociale. La sede di Via Malcontenti ve la siete cercata o è stata casuale?

«Ci siamo capitati. Siamo una delle poche associazioni bolognesi che non chiede soldi al Comune, perché dobbiamo sentirci liberi di intentare le cause. Abbiamo partecipato a un bando per una serie di appartamenti, abbiamo partecipato, vinto e siamo finiti in questi locali di Via Malcontenti, stradina parallela di via Indipendenza. Nomen omen, evidentemente».

Quanto vi ha ispirato il celebre romanzo di John Grisham “L’avvocato di strada”?

«La realtà americana è molto diversa, i legali che difendono le persone in difficoltà guadagnano regolarmente. Chi viene da noi, invece, sa che lavorerà a titolo gratuito e sa pure che per statuto le spese di soccombenza dovute dalla controparte dovrà devolverle all’associazione. Però l’idea ci è venuta anche dopo aver letto quel magnifico libro».

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