Alla fine, dopo tanti tormenti, il Pd lombardo ha deciso di non appoggiare la candidatura di Letizia Moratti alla Regione. Correrà un piddino doc, Pierfrancesco Majorino, eletto eurodeputato con 90mila preferenze nel 2019 e da anni capofila della sinistra interna al partito milanese.
Non ha speranze, l’esponente dem, nel confronto con Attilio Fontana, anche perché combatterà praticamente da solo, senza l’appoggio del M5S (che in Lombardia sarebbe stato comunque esiguo) e senza l’aiuto nemmeno del terzo polo, che candiderà appunto l’ex-sindaca di Milano folgorata sulla via di Calenda.
Una scelta identitaria, quella del Pd lombardo, ma una decisione in definitiva saggia, perché l’eventuale scelta in favore della Moratti avrebbe praticamente distrutto il già disastrato partito meneghino, con pesanti ripercussioni a livello nazionale, in un momento peraltro drammatico per la sinistra. I dem si trovano infatti nel mezzo di una transizione carica di incognite e con il serio rischio di una deflagrazione irrimediabile.
La crisi del Pd viene da lontano e le lacerazioni intorno alla possibile scelta in favore della Moratti l’hanno resa ancora più eclatante e tormentosa. Il partito di largo del Nazareno paga oggi lo scotto dei pesanti errori del passato. Dal passato più recente, segnato dalla disastrosa campagna elettorale condotta da Enrico Letta, a quello degli ultimi anni, segnati a loro volta dalla scelta governista dei vertici Pd. E, volendo andare ancor più in profondità, non è difficile trovare nei tormenti di Letta & compagni i segni di una vera e propria mutazione ideologica, quella di aver scelto senza indugio, dopo la fine del comunismo, la modernizzazione capitalistica, anche a costo di rompere il legame tra il partito e i tradizionali ceti popolari di riferimento nonché di smarrire, in conseguenza, la propria anima di sinistra.
Proprio su questo ultimo argomento c’è da segnalare l’uscita in questi giorni di un brillante pamphlet di Luca Ricolfi, libro che mette il dito nella piaga della sinistra e che si intitola, per l’appunto, “La mutazione – Come le idee di sinistra sono migrate a destra” (Rizzoli ed.). Il sociologo collega lo smarrimento ideale degli ex-comunisti al fatto di essere diventati «parte integrante dell’establishment», un destino peraltro comune con i loro compagni di tutto l’Occidente, ma che cambia radicalmente la “mission” della sinistra: dalla difesa dei ceti operai e popolari alla vicinanza con i favoriti dalla globalizzazione, il famoso ”ceto medio riflessivo” , costituito dai settori sociali garantiti e dai ceti urbani che hanno fatto proprio l’individualismo turbocapitalista, nonché ripudiato ogni legame comunitario e solidale, come quello che esisteva una volta nei quartieri operai delle città.
Per mantenere una parvenza di vicinanza a quelli che considera i “deboli” della società, la sinistra odierna sposa la causa degli immigrati, da un parte, e quella della galassia Lgbt dall’altra, con il risultato di spostare l’accento dai diritti “sociali” a quello “civili”. Una scelta, sia detto per inciso, che è perfettamente compatibile con il neocapitalismo trionfante, come denuncia, non solo la destra odierna, ma anche quello che rimane della vecchia sinistra anticapitalista, in una (non tanto singolare) vicinanza tra nuova destra e vecchia sinistra di “classe”, come si diceva una volta. Questi meccanismi e processi – nota Ricolfi- «creano una saldatura tra gli interessi del capitalismo globale e le istanze libertarie della cultura progressista, con le aperture verso gli immigrati, le femministe, gli ambientalisti il mondo Lgbt, che la sinistra anticapitalista vede come altrettanti ingranaggi dell’economia globale di mercato».
C’è però in questa “mutazione” della sinistra, almeno in Italia, un tratto che comunque riconduce al passato, vale a dire il tratto della vecchia anima leninista, secondo la quale non bisogna mai nutrire troppa fiducia nel “popolo”. Questo non va mai lasciato a se stesso ma sempre guidato da una élite “illuminata”, la famosa “avanguardia rivoluzionaria”. «Alle volte – osserva ancora Ricolfi – mi vien da pensare che, a dispetto di ogni riconversione, revisione e sforzo di modernizzazione, gli eredi del Partito comunista siano rimasti profondamente e irrimediabilmente leninisti nell’anima, prigionieri dell’idea che il popolo non sia in grado di prendere coscienza dei suoi interessi da sé, e che per far maturare tale coscienza siano indispensabili le “avanguardie”, guide politiche e spirituali delle masse incolte».
Nell’età post-moderna questo leninismo d’annata s’è presentato sempre nella forma di una vicinanza stretta ai poteri forti. E i poteri forti hanno ricambiato tanto interesse offrendo agli ex comunisti le delizie della stanza dei bottoni.
È sintomatico che in questi giorni, per spingere il Pd lombardo a scegliere la Moratti, sia sceso in campo un esponente dei poteri forti da sempre associato al mondo progressista: Carlo De Benedetti. «Perché ora fanno gli schizzinosi? Come mai questo pudore improvviso?», si è chiesto sconcertato l’Ingegnere in una intervista al “Corriere della Sera”.
Già, come mai? Forse i dirigenti del Pd hanno capito che la via del potere fine a se stesso può condurre al suicidio politico. E non hanno dato retta ai consigli interessati dell’establishment economico. Buon per loro. E bene, in definitiva, per tutti. Di una sinistra consapevole della propria missione ha bisogno il sistema politico in quanto tale. Se una gamba non funziona, la politica cammina zoppa.