Addio al Superbonus, la scelta obbligata di Giorgia

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«Se lasciassimo il Superbonus così com’è non avremmo i soldi per fare la finanziaria. Il costo è di 105 miliardi e ci sono state truffe per circa 9 miliardi». L’analisi economica, spietata e precisa, dei motivi che hanno spinto il governo a mettere fino al Superbonus è tutta qui, in questa dichiarazione di Giorgia Meloni. Che chiarisce quanto questa fosse una scelta obbligata.

La decisione era nell’aria da tempo, e già Draghi – il cui governo è caduto prima di tutto per l’ostinazione del M5S nel mantenere il bonus – aveva spiegato che la spesa non era sostenibile per le casse statali. A renderla non più procrastinabile è stata la decisione di Eurostat di contabilizzare i crediti cedibili nel deficit dell’anno in cui vengono creati e non in quelli successivi, in cui lo Stato li rimborsa. Un passaggio tecnico, ma anche di sostanza, perché di fatto da un giorno all’altro il deficit del 2022 è salito per l’Italia dal 5,6% all’8,3%. E la situazione non sarebbe stata migliore nel 2023, anno per il quale l’esecutivo aveva previsto un onorevole 4,5% di deficit. Secondo i calcoli dei tecnici di via XX settembre se non si fosse deciso di dire basta altri 30 miliardi di euro sarebbero finiti nella voragine del debito pubblico, di fatto rendendo non finanziabili buona parte delle misure economiche che il governo intende varare nei prossimi mesi.

Capita l’inevitabilità della decisione, un po’ più difficile è cercare di stabilire quali conseguenze questa avrà sull’economia italiana, che sul comparto dell’edilizia ha puntato una quota non indifferente della sua ripresa. Senza contare il problema dei 15 miliardi di crediti bloccati dei quali le banche non riusciranno più a farsi carico.

L’Ance (l’associazione nazionale dei costruttori) ha ovviamente buon gioco a predire scenari da incubo e parla di 25mila imprese a rischio, mentre secondo la Cgil verranno persi 100mila posti di lavoro. Cifre rilanciate dall’opposizione di Pd e M5S, che in una nota parla addirittura di 40mila imprese in bilico, mentre Carlo Calenda ha difeso l’operato della premier; d’altra parte il leader del Terzo polo era sempre stato contrario alla misura.

Anche se i numeri sono probabilmente un po’ esagerati, non c’è dubbio che una ricaduta ci sarà. È per scongiurarla, o almeno per limitarne l’impatto, che l’inquilina di Palazzo Chigi ha deciso di invitare già oggi sia una rappresentanza delle banche (Abi, Cdp e Sace) che degli imprenditori (ci saranno tra gli altri Ance, Confindustria e Confedilizia e Confapi e Alleanza delle Cooperative Italiane).

Le soluzioni potenziali per far sparire i 15 miliardi arenati sono molte, dal compenso dei crediti incagliati tramite le tasse pagate dai correntisti come Iva, Irpef e Iva con gli F24, alla vendita a società specializzate in obbligazioni, fino alla più ovvia, ovvero mettere questi 15 miliardi in pancia allo Stato, tramite Cdp e Sace.

Più complicato sarà trovare dei compensi sufficienti per le aziende edili, che in questi due anni sono cresciute a dismisura proprio grazie al grande numero di appalti facilitati dalle spese pazze del bonus; non c’è dubbio che per il settore si profilano tempi grami. Evitare che queste sofferenze si propaghino all’insieme dell’economia italiana sarà la prima vera sfida dell’esecutivo targato Meloni.

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