Dal giorno del crollo di Silicon Valley Bank in tutta Europa, a partire dal nostro Paese, il coro di analisti e politici è stato unanime; tranquilli, nessun rischio da questo lato dell’Atlantico? Ma davvero l’Italia non rischia alcun contraccolpo? La risposta, purtroppo, è un nì.
Da un lato infatti – come d’altra parte era accaduto con la crisi finanziaria del 2008 – le banche e i piccoli azionisti italiani sono molto poco esposti (gli investitori tricolori in SVP si contano sulle dita della mano), e in ogni caso la banca californiana era molto più piccola di Lehman Brothers e quindi il suo fallimento è più facilmente gestibile. Inoltre, come ha spiegato in un’intervista al Corriere della Sera il numero uno dell’Abi Antonio Patuelli, questi anni non sono passati invano, in quanto le banche si sono rese più resistenti a eventuali pressioni esterne grazie all’aumento delle soglie di patrimonio indispensabile.
A gettare acqua sul fuoco sono intervenuti anche il ministro dell’Economia Giorgetti (“Il sistema bancario italiano ed europeo è regolarmente monitorato dalle autorità di vigilanza e supervisione, assicurandone così la stabilità”) e il Commissario Ue Gentiloni (“L’esposizione dell’area dell’euro alla Silicon Valley Bank è molto limitata e non c’è un rischio di contagio”).
Dall’altro lato però le fragilità della nostra economia ci rendono la vittima perfetta se la crisi dovesse allargarsi, travalicando il campo della finanza. Il motivo della debolezza è sempre quello, non serve neanche ricordarlo; il mostruoso debito pubblico che da ormai un ventennio vanifica ogni nostro tentativo di ripresa. Quest’anno infatti l’Italia dovrà cercare per conto proprio sui mercati ben 18 miliardi in titoli di stato che la Bce non comprerà più, avendo deciso di diminuire il sostegno alle economie dell’eurosistema come fatto all’indomani della crisi da Covid.
A questo problema si aggiunge il continuo aumento dei tassi voluto dalla Lagarde e i suoi falchi, che non sembrano intenzionati a mollare l’osso neanche ora che persino la Fed sta valutando di ammorbidire la sua politica. A Washington infatti si sono accorti che la causa scatenante del fallimento di SVP è stato l’inasprimento violento e improvviso dei tassi dopo anni di bonaccia. Ma in Europa i “frugali” non sembrano voler capite; il governatore austriaco Robert Holzmann, ad esempio, è arrivato a chiedere pubblicamente un aumento di 50 punti base in ognuna delle prossime quattro riunioni della Bce.
Il mercato ha subito intuito le criticità e infatti la Borsa di Milano ha segnato un crollo molto peggiore rispetto agli altri listini europei, mentre lo spread si è impennato. L’impressione è che l’Italia dovrà collocare nei prossimi mesi i suoi Bot e Btp a un tasso molto più alto di quello attuale, indebitandosi ancora di più.
Insomma, il sistema finanziario italiano sembra poco interessato al crollo di Svp, ma il sistema paese nel suo complesso potrebbe risentire della sfiducia nei confronti della nostra capacità di ripagare il debito. Sembra di assistere allo stesso film visto qualche anno fa, quando l’Italia rimase più o meno immune dalla crisi finanziaria del 2008 per essere poi travolta dalla crisi del debito nel 2011.
Giorgia Meloni ha finora potuto contare su conti in ordine e un atteggiamento bonario degli investitori nei nostri confronti; ora dovrà impegnarsi a fondo per mantenere quella fiducia che significa anche il mantenimento delle promesse fatte in campagna elettorale, a partire dalla riforma del fisco.