Erdogan supera Ataturk ed è sempre più il padre dei turchi

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Se il potere di un leader si misura dal numero dei suoi amici, non c’è dubbio che quello di Erdogan non è mai stato così grande. L’annuncio della vittoria – di misura – del presidente turco nel ballottaggio con il leader del partito di opposizione laico Kemal Kilicdaroglu, è stato subito salutata dagli “antioccidentali” Vladimir Putin, dal presidente dell’Iran Raisi, da quello venezuelano Maduro, dall’emiro del Qatar Sheikh Tamim bin Hamad e dal serbo Aleksandar Vucic. Ma si è complimentato pure il leader del mondo libero Joe Biden, che ha affidato a Twitter la sua voglia di  «continuare a lavorare insieme come alleati della Nato su questioni bilaterali e sfide globali condivise». L’Europa si è fatta sentire per bocca del solito Viktor Orban, un altro fuoriclasse nel tenere comodamente il piede in due scarpe.

È insomma nella varietà degli alleati più che nell’entità della vittoria elettorale (il presidente ha prevalso al ballottaggio con appena il 52,1% dei voti) la misura del trionfo di Erdogan, che grazie al conflitto in Ucraina e alla sua capacità di porsi come unico mediatore ascoltato da entrambe le parti (è pur sempre membro della Nato) sta riuscendo a riservare alla Turchia un ruolo sovradimensionato rispetto alle reali potenzialità economiche e militari del Paese.

Arrivare a dire, come ha fatto Erdogan commentando il risultato dello spoglio, che questo è «il secolo della Turchia» è forse esagerato, ma di sicuro il paese asiatico non è mai stato così importante nonostante le enormi difficoltà che la sua popolazione deve affrontare.

La situazione economica è infatti tutt’altro che rosea: l’inflazione è attorno al 50% da mesi, fatto che ha causato un azzeramento dei risparmi di ampie fasce della popolazione e ha costretto la banca centrale a intaccare le riserve monetarie per tenere a galla il valore della moneta, mentre Erdogan è stato costretto a chiedere nuovi prestiti ai paesi del Golfo, che questi hanno concesso volentieri sapendo di poter così influenzare le politiche di Ankara.

Il presidente sembra sempre più convinto di essersi assicurato ancora molti anni al potere, se davanti ai suoi sostenitori ha detto di voler continuare a servire «fino alla tomba». In teoria la Costituzione gli vieterebbe di presentarsi per un nuovo mandato tra cinque anni, ma una scappatoia legale gli consentirebbe di farlo se chiedesse al Parlamento di chiudere in anticipo la nuova legislatura. Va ricordato che Erdogan è già da vent’anni alla guida del Paese, contro i 18 del padre della patria Kemal Ataturk, l’inventore della Turchia moderna.

Il trucchetto ricorda un po’ quello che permise a Putin di abbandonare il potere per finta, cedendo per un mandato, dal 2008 al 2012, il posto al fedelissimo Medvedev per tornare in sella subito dopo. Se davvero Erdogan punta a restare al suo posto finché ne avrà le forze la Turchia rischia secondo i critici di trasformarsi in una “democratura”, un paese con solo l’apparenza dello stato di diritto. Se non c’è dubbio che una parte importante del paese continua a sostenerlo, e che neanche l’opposizione si è lamentata di brogli elettorali, va detto in effetti che vivere da oppositori in Turchia è diventato uno sport pericoloso; il suo avversario più popolare, il sindaco di Istanbul Ekrem İmamoğlu, non ha potuto fronteggiarlo come candidato presidenziale perché impedito da una “provvidenziale” condanna per insulti a funzionari elettorali, che rischia di bandirlo per sempre dalla politica attiva se la corte costituzionale turca confermerà la sentenza dei giudici. Dando inizio, se non al secolo della Turchia, di sicuro al secolo di Erdogan.

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