Un’ondata di migranti senza precedenti sta travolgendo l’Europa, in primis l’Italia, generando ulteriori tensioni internazionali. La conseguenza è che persino all’assemblea generale delle Nazioni unite i capi di Stato, complici anche la guerra in Ucraina, l’instabilità africana e ora il fresco conflitto tra Armenia e Azerbaigian, si siano guardati in cagnesco. Lo Specialegiornale ha intervistato Daniela La Foresta, professoressa ordinaria di Geografia economico-politica all’Università Federico II di Napoli sugli ultimi fatti che hanno mandato in fibrillazione la comunità internazionale.
Come valuta nel complesso, professoressa, gli ultimi provvedimenti assunti dal governo Meloni per frenare gli sbarchi?
«Siamo di fronte a un fenomeno di portata epocale e quindi non si poteva fare altro che adottare misure-tampone. Quanto sia efficace la rapida realizzazione di una rete di strutture per l’accoglienza di migranti è difficile prevederlo. Personalmente sono molto scettica perché la questione è molto complessa e ha radici antiche. Sarà anche complicato distinguere tra chi ha diritto di asilo politico e chi andrà respinto. Quello dei migranti è un problema strutturale e va affrontato a monte. Avendone fatto un cavallo di battaglia in campagna elettorale, il governo si gioca molto, se non tutto, in questa sfida».
Come si risolve un fenomeno di tali dimensioni?
«Ovviamente non in poco tempo, ci vuole un’attività diplomatica incessante e instancabile. Occorre condividere con i paesi africani investiti dalla crisi valori democratici non negoziabili facendo capire loro che la via armata e l’instabilità portano al caos. Dal dialogo possono finalmente nascere governi stabili, sostenuti dalla comunità internazionale, che non abbiano come fine esclusivo i finanziamenti a pioggia. E’ urgente, inoltre, ridare slancio alla cooperazione internazionale, parlare con i singoli paesi e con i paesi afferenti alle medesime aree regionali e non lasciare l’iniziativa di interlocuzione solo alle Ong. Infine, pensare a una gestione militare delle emigrazioni come approccio al problema solo come ultima opzione».
Ecco, la Tunisia è un paese-chiave che si è rivelato inadeguato a rispettare gli accordi firmati con l’Ue, anche perché presumeva di poter utilizzare gli aiuti economici europei a proprio piacimento.
«Vero, ma ora non bisogna abbandonare la Tunisia al suo destino, il paese è in preda a una forte crisi economica e per questo potrebbe prima guardare con interesse ad altre fonti di approvvigionamento economico, poi potrebbe finire nella sfera d’influenza dell’Algeria, quindi precipitare nel buco nero del Sahel»
Chi sta spingendo sull’instabilità dei paesi sub sahariani del Sahel?
«In quell’area i convitati di pietra sono sempre gli stessi: Russia e Cina su tutte, ma nessuno vuole ammetterlo. Non si sa perché in questo preciso momento storico si voglia far passare solo la narrazione del montante sentimento anticoloniale e anti-occidentale come la causa di tutto. Certo, molte istanze sono legittime, ma come si fa a ignorare le lotte sotterranee che ci combattono, per esempio, intorno ai giacimenti di uranio del Niger? Poi pesano molto la mancata crescita democratica ed economica dei paesi africani, e qui le responsabilità dell’Occidente ci sono tutte, per cui restano imbrigliati in un continuo susseguirsi di governi corrotti e colpi di Stato. Oggi lo scacchiere africano è di primaria importanza internazionale, ma per anni è stato colpevolmente ignorato dall’Occidente».
Una delle prime cause di tale instabilità potrebbe essere stato proprio il rovesciamento di Gheddafi nel 2011 ispirato dalla Francia.
«Esatto. Anche se la Francia non ha ottenuto alcun oggettivo vantaggio come prevedeva. Anzi la Libia è finita nel caos dell’ingovernabilità con due governi autoproclamati in Tripolitania e Cirenaica. Così anche vecchi programmi di Italia e della stessa Francia di disarmo, di smobilitazione della guerriglia e di progressiva attenuazione dell’influenza islamica sono falliti. La Libia è stata il primo teatro di destabilizzazione e conseguente forte riarmo dell’area lasciando gioco facile alle Wagner di turno. Il recente colpo di Stato in Niger non ha fatto altro che aggravare la situazione».
L’ondata migratoria ha messo a nudo fragilità ed egoismi della Ue: siamo all’inizio della fine del sogno europeo?
«Non credo e non voglio crederlo perché sono un’europeista convinta. La crisi c’è, ma la parte sana della comunità troverà gli anticorpi per difendere il disegno dei padri fondatori».
Ma è innegabile, professoressa La Foresta, che l’Unione europea vada riformata.
«Ha fatto molto in termini di programmazione economica e legislativa proponendo un metodo comune di lavoro. Ma sì, va riformata. Oggi i cittadini europei pensano a Bruxelles come a un’entità astratta e lontana e per questo a un organismo accentratore. E in parte è così. Invece le ramificazioni dell’Ue dovrebbero essere distribuite più capillarmente sui territori, soprattutto in quelli più bisognosi di crescere».
Nel frattempo, Francia e Germania lavorano per un allargamento a est dell’unione entro il 2030 anche per sottrarre alla Russia sfere d’influenza. Non crede che rispetto alle riforme di cui avrebbe bisogno con urgenza l’Ue sia un progetto da rimandare a tempi più favorevoli?
«Forse è progetto ancora prematuro, tuttavia l’ultimo allargamento alle ex repubbliche sovietiche e ai Paesi dell’ex Patto di Varsavia non ha generato chissà quali contraccolpi alla stabilità della Ue. Anzi ha creato una zona cuscinetto di fronte alla Russia, ha fornito manodopera più meno specializzata a basso costo per le esigenze dei mercati, ha elevato il benessere in alcune zone periferiche cresciute molto di più del nostro Mezzogiorno. La Polonia è unanimemente considerata un esempio virtuoso di come si debbano spendere i fondi europei. Che poi la Germania abbia un interesse oggettivo ad allargare a est la comunità europea è un altro ragionamento».