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Fratta, Dirigenti Scuola: «La crisi dei licei classici? Ecco perché…»

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licei classici

I licei classici languono, gli scientifici (con e senza latino) volano, mentre gli istituti tecnici e professionali si fanno lentamente strada nelle preferenze dei ragazzi. Cambiano i tempi e gli studenti, abituati a comunicare attraverso linguaggi sincopati e infarciti di parole tronche ed emoticon, non sono quelli di una volta. «Pochi oggi hanno voglia di faticare – spiega a la Repubblica il latinista Maurizio Bettini – in una società in cui esistono piattaforme che aiutano a tradurre da tutte le lingue». Anche il prestigioso liceo classico D’Azeglio di Torino, che ha diplomato giganti come Cesare Pavese, Giulio Einaudi e Norberto Bobbio, prosegue la sua mutazione genetica inaugurando un corso che diplomerà gli studenti con il titolo del liceo scientifico. Lospecialegiornale ha intervistato su questi temi Attilio Fratta, presidente nazionale del sindacato Dirigenti Scuola.  

Professore, iscrizioni in calo e avviamento di nuovi corsi per evitare la chiusura: i licei classici sono davvero in via d’estinzione o stanno semplicemente cambiando pelle?

«Le rispondo utilizzando una libera associazione di Freud ricordando che il sociologo Marzio Barbagli nel 1982 scrisse un illuminante saggio intitolato “Disoccupazione intellettuale e sistema scolastico in Italia” nel quale preconizzò alcune situazioni che si sono realmente verificate. Egli sosteneva, tra l’altro, che se c’era bisogno di ingegneri e si formavano soltanto medici oltre i bisogni del sistema sanitario il risultato sarebbe stato l’aggravarsi della penuria di ingegneri e la creazione di altri medici disoccupati. Banalmente, quindi, bisogna rispondere alle richieste di mercato. Solo che i cambiamenti, soprattutto quelli riformisti, sono difficili da applicare a una società abitudinaria e pigra come quella italiana. E costano fatica. Sono stato preside sia di liceo classico sia di liceo scientifico: da una parte ho affrontato il problema di una possibile chiusura dell’istituto, dall’altra la difficoltà di non sapere come accogliere i nuovi iscritti perché non avevamo aule a sufficienza. Allo scientifico si studia fisica, chimica, matematica, oltre al latino caposaldo della nostra cultura, quindi un bagaglio di competenze adeguato per affrontare l’università. Il classico, mi duole dirlo, oggi appare fuori tempo per cui i dirigenti cercano nuovi indirizzi di studio per scongiurarne la chiusura. Da genitore iscriverei mio figlio allo scientifico. La ragione del declino del liceo classico, probabilmente, è tutta qui».

Dobbiamo rassegnarci a perdere una straordinaria peculiarità del sistema scolastico italiano?

«Questo non lo so, ma se oggi c’è una massiccia richiesta di ingegneri elettronici e informatici bisogna tenerne conto. Non si possono ignorare le dinamiche del mercato del lavoro. Quante possibilità oggi ci sono per un laureato in giurisprudenza di inserirsi nel mondo del lavoro? Figuriamoci per un laureato in Lettere classiche o moderne. Le faccio un esempio, quante persone capirebbero le citazioni latine in un articolo o un saggio? Ci sarebbe bisogno di un dizionario. Se nello stesso articolo apparissero citazioni in lingua inglese non ce ne sarebbe bisogno. E’ il segno dei tempi».

D’accordo sull’importanza delle discipline scientifiche, ma in generale perché si sta rincorrendo un modello che non ci appartiene, ancorché dominante, come quello anglosassone?

«Le ripeto, è soprattutto il mercato che crea le precondizioni per gli indirizzi scolastici»

Come valuta l’ormai quasi esclusivo utilizzo della lingua inglese in molti corsi universitari?

«Con me sfonda una porta aperta. Io mi rifiuto di utilizzare un termine inglese se c’è una corrispondente parola in italiano. Chiamiamola moda, chiamiamola tendenza. E’ fallito anche l’esperimento di diffondere l’esperanto come lingua franca del mondo, che invece è l’inglese. Non dovrebbe essere così, ma tant’è. Lei parla dell’università, ma perché, tornando nel mio ambito, un concorso per dirigente scolastico deve prevedere come obbligatoria la conoscenza di inglese di livello B1, che magari preclude la partecipazione a persone che hanno un’eccellente conoscenza di psicologia, di metodologia e di didattica? Il paradosso è che l’inglese nel contesto scolastico non servirà mai, mentre tali competenze sì, ma la conoscenza della lingua straniera rischia di rappresentare un ostacolo insormontabile per molti».

In generale, presidente Fratta, come si libera la scuola dalla burocrazia migliorando la qualità della didattica e magari recuperando anche qualche caposaldo della nostra cultura? E’ di questi giorni l’allarme sull’analfabetismo geografico di molti studenti.

«Mi permetta di evocare ancora Freud e le sue libere associazioni. Mio genero è professore universitario: insieme a un collega andò a un seminario in Sicilia. Al ritorno il collega disse a mio genero: “Ho l’impressione che l’andata sia stata più breve”. Poi aggiunse “Eh già, all’andata è tutto in discesa”. Capisce? Un professore ordinario dell’università… A me invece è capitato che una bimba di quinta elementare volesse parlare di una regione italiana, quando le mostrai la cartina d’Italia non seppe indicarmi dove fosse quella regione. Il problema è tutto nelle competenze e nel metodo di insegnamento. Bisogna padroneggiare la materia e saperla divulgare. Piero Angela era solito ripetere che si può insegnare tutto, ma dipende dal metodo. Se si cominciasse a spiegare la geografia stendendo una cartina a terra e non tenendola appesa al muro o ritornando al caro, vecchio, mappamondo la divulgazione sarebbe molto più efficace. Vogliamo parlare della storia? Ma si può spiegarla ai ragazzi ancora partendo dalle palafitte? La storia è ricostruzione degli eventi, non è possibile inculcare nei ragazzi il concetto di un tempo esistito milioni di anni fa. Bisognerebbe invece cominciare dalla stretta attualità per tornare a ritroso all’età delle caverne. Riformare sarebbe necessario, ma è faticoso, appunto».

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