Disastro Biden, anche i suoi gli voltano le spalle

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Disastro Biden, cresce il malcontento nei suoi confronti all’interno dello stesso partito democratico. L’ultimo sondaggio pubblicato dal “New Times” è una vera mazzata per il presidente e per i democratici. Se si votasse oggi nelle elezioni presidenziali, vincerebbe Donald Trump. Il probabile candidato repubblicano è in vantaggio nei cinque Stati chiave che decidono da sempre l’esito delle consultazioni.

Per questo (ma non solo per questo), aumentano le richieste dei dem americani affinché il presidente in carica rinunci a ricandidarsi il prossimo anno. Oramai è un coro: «Ripensaci Joe». L’ultima voce è quella di David Axelrod, storico stratega dell’ex presidente Barack Obama e personaggio assai influente dentro il partito democratico.  Il “guru” della formazione dell’Asinello ha espresso in modo crudo ma efficace i dubbi che percorrono la sua parte politica: «È nel suo interesse e in quello del Paese che il presidente si ricandidi?». In teoria, i democratici sarebbero ancora in tempo per trovare un candidato capace di dare filo da torcere al rigenerato (e sempre più temibile) Trump. Alle elezioni presidenziali manca un anno e c’è tutto il grande circo della nomination da far partire.

Ma quali sono le ragioni di questo disastro annunciato? C’è innanzi tutto l’età: Joe compirà 81 anni il prossimo 20 novembre e ne avrebbe 82 quando dovrebbe in teoria dare inizio a un secondo eventuale mandato. Per una parte consistente di elettorato potrebbe essere un motivo più che sufficiente per non votarlo.

Intendiamoci, neanche Trump è un giovincello: il 14 giugno scorso ha compiuto 77 anni, un’età in cui gli uomini politici si limitano a dare “consigli” godendosi il meritato riposo. Ma dalla figura di Donald continua a sprigionare una incredibile corrente di energia. Basti pensare a come è riuscito a rimanere sulla scena in questi tre anni e, soprattutto, a come è stato capace di volgere a suo favore (mediaticamente e politicamente) le vicissitudini giudiziarie che gli sono piovute addosso negli ultimi tempi. E certe performances il vecchio Joe se le sogna davvero.

Ma le ragioni vere del disastro di Biden nei sondaggi e nella popolarità sono altre e derivano dal fallimentare bilancio che l’attuale inquilino della Casa Bianca è costretto a esibire sia in politica interna sia in politica estera.

Per quanto riguarda il primo aspetto, a colpire negativamente l’opinione pubblica è l’aumento consistente dell’immigrazione clandestina negli anni della presidenza democratica. A differenza di quello che accadeva al tempo di Trump (che fece anche costruire un muro), l’amministrazione Biden s’è caratterizzata per una politica molto lasca nel controllo alle frontiere, con il risultato di un aumento della criminalità in molte città americane. Particolare interessante: a volgere le spalle ai democratici sono oggi soprattutto gli afroamericani e gli ispanici, che erano tradizionalmente i punti di forza della sinistra Usa. La ragione è semplice: queste categorie di cittadini vivono nelle città e nei quartieri più esposti al rischio della delinquenza di strada. Tant’è che, presso queste comunità, il consenso per Trump è cresciuto dal 8 al 22%.

E poi c’è l’economia a non andare bene. Magari non sarà tutta colpa di Biden, ma di una complessa congiuntura internazionale. Però, al tempo del presidente  repubblicano, il pil Usa cresceva a ritmi sostenuti e sono probabilmente in molti a a fare  il confronto.

Il più grande disastro combinato da Joe Biden rimane però quello in politica estera. Con la sua presidenza, il mondo sta letteralmente esplodendo. Potremmo collocare il momento d’inizio della nuova instabilità globale con la fuga degli americani da Kabul, alla metà di agosto del 2021. La ritirata Usa dall’Afghanistan e la conseguente vittoria del Talebani hanno dato un pessimo segnale al resto del mondo, suggerendo l’idea, agli avversari dell’America e dell’Occidente, che era arrivato il momento di assestare colpi micidiali.

Così ci siamo ritrovati l’invasione russa dell’Ucraina, un conflitto che poteva essere tranquillamente evitato se non fosse intervenuto lo spirito “missionario” (la maschera “etica” dell’aggressività in politica estera) che caratterizza da sempre i progressisti americani. La guerra sembra destinata a durare ancora a lungo e l’opinione pubblica americana comincia a essere stanca. Né va trascurato il fatto che il presidente Usa deve ora sudare sette camicie per far approvare al parlamento i fondi destinati agli armamenti di Kiev.

Ora si è aggiunto anche il conflitto tra Israele e Hamas, che sta in questi ultimi giorni regalando a Washington un brutta figura dietro l’altra. Gli americani hanno assistito perplessi al fallimento della missione di Antony Blinken in Medio Oriente. Il segretario di Stato non è riuscito ad ammorbidire le posizioni di Benjamin Netanyahu, che non accetta il principio, caldeggiato dagli Usa, di una forza di interposizione internazionale (con il coinvolgimento diretto dell’Anp di Abu Mazen) nell’amministrazione di Gaza dopo la fine delle ostilità. Bibi ha fatto sapere al mondo che Israele resterà nella Striscia fino a «tempo indeterminato». Un sonoro schiaffo in faccia all’amministrazione Biden, che pure sostiene le spese militari di Israele per la bellezza di circa quattro miliardi di dollari all’anno.

In questo contesto così drammatico ha buon gioco Trump nel dire che, sotto la sua presidenza, un simile disastro non sarebbe mai accaduto. E probabilmente ha ragione.

Fa riflettere solo il fatto che, tra un anno, si potrebbero sfidare per la presidenza Usa due candidati ottantenni (Donald ne avrà 78, ma sarà vicino a quella fatidica soglia). È anche questo un segno della crisi politica e culturale degli Usa. Avremo modo di riparlarne ampiamente nella lunga corsa per le presidenziali che si sta per aprire.

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