E’ morto Sergio Marchionne, l’uomo che ha ridato un futuro alla Fiat e non solo. Ora, con il suo addio così precoce e così imprevisto, si sta passando dalle analisi sul passato a quelle sul futuro. Giuseppe Sabella, direttore di Think-in ed esperto di Industria 4.0, che ammirava l’uomo Sergio oltre al grande manager, ha affrontato con Lo Speciale proprio questo aspetto.
Su Marchionne investì, diciamo cosi, il governo Obama e oggi è correttamente esaltato per le sue capacità di restituzione del dovuto. Ma l’AD di Ford che ha rilanciato alla grandissima il noto brand di auto senza un contributo governativo?
“Dopo il fallimento di Lehman Brothers, nel novembre del 2008 – quando negli USA la crisi finanziaria di era fatta economica – l’industria dell’auto era in ginocchio. Celebre la frase di Richard Wagoner (allora numero 1 di General Motors): “siamo sull’orlo dell’abisso”. E sull’orlo dell’abisso c’erano tutte le Big Three, ovvero le tre case automobilistiche di Detroit: GM, Ford e Chrysler. Fu George Bush ad autorizzare il prestito di 17,4 miliardi di dollari a GM e Chrysler, subordinato alla presentazione del piano industriale che fu poi messo a punto da Marchionne con l’amministrazione Obama. L’ad del Lingotto era divenuto nel frattempo anche ad di Chrysler, perché tra Fiat e Chrysler era appunto iniziata la joint venture. Vero, Ford disse che non aveva bisogno di aiuto, evidentemente aveva delle riserve su cui contare. Ma sia GM che Chrysler restituirono i soldi al Tesoro americano. Si trattava soltanto di un prestito, Marchionne tra l’altro fu in grado di restituire il denaro con quasi 2 anni di anticipo. E non dimentichiamo che la crisi bancaria costò agli americani 700 miliardi di dollari, in confronto quello che il governo americano stanziò per l’auto furono noccioline…”.
Marchionne è l’espressione del capitalismo finanziario. Apolide per sua natura, che toglie il radicamento di un’azienda da un contesto sociale e geografico e pensa ad un unico rapporto, quello tra lavoro e produzione. È così?
“Penso che Marchionne sia tra i più grandi interpreti dell’economia globale, che non è un’invenzione sua. Quindi, non si può dare colpe a Marchionne di come va il mondo e delle sue contraddizioni. Certo, Marchionne è stato capace di capitalizzare al massimo le opportunità che prima Fiat e poi FCA hanno avuto. Per il momento, ciò che è stato spostato dall’Italia è soltanto la sede legale e fiscale: da una parte, vi sono fattori legati ad un azionariato complesso dopo la fusione tra Fiat e Chrysler; dall’altra sarebbe auspicabile che prima o poi in Italia avvenisse una riflessione seria sul fisco e sulla sua indispensabile riforma. Ora, tuttavia, inizia un problema serio che riguarda la produzione in Italia: bisogna che governo e sindacati tutti si diano una strategia comune. Altrimenti c’è il serio pericolo di perdere dei pezzi”.
La Fiat era anche un discorso di storia italiana. Un capitalismo nazionale è ancora possibile? Tanto più che i fondi presi nel tempo in Italia li avrebbe dovuti mantenere sul territorio per esportare all’estero, accusano in molti. Come risponde a chi ragiona così?
“Uno dei meriti che vanno riconosciuti a Marchionne è che ha messo fine a quel rapporto patologico che la Fiat degli Agnelli aveva con lo Stato italiano: gli utili per l’azienda, i debiti per l’Italia. Attraverso soprattutto l’operazione col Tesoro americano, Marchionne fu in grado di interrompere il rapporto che Fiat aveva con la finanza italiana. E fu questo a costargli la gogna mediatica. Ciò che ottenne poi dal governo italiano fu solo la cassa integrazione per quella parte di occupazione ancora non del tutto reintegrata. Sono livelli però fisiologici per un’industria così grande e in tutto il mondo, nelle economie avanzate, lo Stato partecipa in qualche misura della salvaguardia dei livelli occupazionali dell’industria, tanto è il beneficio che questa porta alla collettività. Sarebbe ora che anche in Italia andassimo oltre questa discussione banale”.