“Tria si dimette, non si dimette?”, gongolano le opposizioni, da Fi al Pd, che ormai ipotizzano scenari apocalittici prossimi venturi per il governo, del tipo Conte non arriva a mangiare il panettone a Natale. Da adesso fino al 27 settembre, il giorno in cui dovrà essere pubblico il Def, sarà, infatti, tutto un fuoco di fila, un gioco delle parti, una partita a scacchi, una snervante alternanza di momenti cruenti e improvvise riappacificazioni. Una partita a tre: Lega, 5Stelle e Quirinale.
Sui giornali di oggi si evidenzia, come scontato, lo scontro tra il vice premier Luigi Di Maio e il ministro del Tesoro Tria. E’ noto, sulla manovra (ognuno ha la sua impostazione e le sue concezioni), si stanno cercando i soldi per accontentare gli elettori e fare fronte alle tante, troppe, promesse. Il dibattito sulle coperture, dal superamento della legge Fornero, alla flat tax, al reddito di cittadinanza, al blocco dell’aumento dell’Iva, è diventato ideologicamente stucchevole.
E certamente, prevarrà la mediazione: non tutto e non subito. Sembra un film già visto: “Tutto e subito” (lo slogan degli anni Settanta dai megafoni dei gruppi rivoluzionari), cui rispondeva lo Stato col “niente e mai”, e poi, infine, la sintesi che accontentava le parti: “Qualcosa e fra poco”. Stessa logica di Palazzo Chigi, mascherata da slogan, annunci forti e tweet polemici, unicamente per cementare e non deludere le rispettive tifoserie.
A un “pretendo che Tria trovi i soldi”, tuonato da Di Maio, e all’accusa che “il ministro conosceva il contratto e ha firmato” (quindi, cosa vuole e cosa cerca?), ribadito dal sottosegretario alle Infrastrutture Armando Siri, Tria non ha replicato, “non comment”. Ma tra le righe, si è fatto capire lo stesso: “Il governo, mantenendo l’impegno europeo, traccerà un percorso bilanciato”. Come dire, la forchetta del rapporto deficit-pil partirà dall’1,6% e non supererà quota 2,5%. Tradotto: sovranisti e non sovranisti, le regole europee non si toccano.
I conti senza l’oste non si fanno, e Tria sa perfettamente che il suo dicastero è quello che subisce e subirà tutte le pressioni del caso, e sarà inesorabilmente la valvola di scarico di ogni fibrillazione interna ed esterna al governo.
E, da tecnico doc, ha ribadito che il “dibattito politico non lo appassiona”. Il motivo è semplice. E’ legato al fatto che non si dimetterà, perché non può dimettersi: è l’uomo del presidente della Repubblica, messo apposta per equilibrare il primo governo populista e per rassicurare la Ue e i mercati che il trio Conte-Di Maio-Salvini non sfascerà Bruxelles. Insomma, il ministro del Tesoro è la garanzia che non ci saranno mai più altri casi-Savona. E alle richieste di dimissioni, più o meno dirette, l’uomo del Colle dirà sempre di no.
Anche i giornali blasonati, ammettono tale regia. Francesco Verderami sulle colonne del Corriere della sera è stato esplicito: “E’ altrettanto evidente che la cortina parlamentare stesa dall’opposizione al governo, ossia da Fi e dal Pd, si unisce alla tutela istituzionale del Quirinale e della Bce, impegnati a proteggere l’operato di via XX settembre”.
Una partita a tre che non può finire in pareggio.