FdI è il partito oggi sulla cresta dell’onda. Ha su di sé tutti i riflettori, nazionali e internazionali. «Ci faremo trovare pronti: abbiamo le idee e gli uomini giusti. È arrivato, il nostro tempo», ha scandito Giorgia Meloni dal palco della conferenza programmatica di Milano. Ma sarà vera gloria?
Il fatto è che la convention di FdI, se ha rappresentato un indubbio successo mediatico, non ha però sciolto tutti i nodi che riguardano il futuro del partito della destra italiana. Soprattutto un nodo: la formazione guidata dalla Meloni deve il suo attuale successo al fatto di essere l’unico partito di opposizione, però non ancora ha chiarito bene come questa vocazione antagonista possa tradursi in cultura di governo. Cerchiamo allora di capire le ragioni che militano sia a favore sia contro le ambizioni della leader di FdI.
A favore di Giorgia Meloni milita innanzi tutto l’immagine di coerenza che Fratelli d’Italia ha saputo accreditare di sé. E non è cosa da poco, in un momento di trasformismi e ambiguità come quello che stiamo vivendo oggi. La chiarezza delle posizioni di FdI risalta soprattutto rispetto all’atteggiamento ondivago della Lega di lotta e di governo.
In più, rispetto sia a Salvini sia a Berlusconi, c’è anche la nettezza della posizione assunta rispetto alla guerra in Ucraina. Possiamo discutere finché vogliano sulla giustezza o meno dell’atlantismo scelto dalla Meloni, ma questa opzione ha se non altro il pregio della chiarezza. E anche questo fatto risalta sulle ambiguità del Carroccio come pure di Forza Italia. Vantaggio non da poco, Giorgia può disattivare l’accusa di filo-putinismo che è oggi normalmente rivolta alle forze sovraniste. Un’accusa che ha non poco danneggiato Marine Le Pen nella sfida a Macron. In ogni caso, l’atlantismo è un punto a favore per un partito, come FdI, perennemente sotto esame da parte dell’establishment.
Fattore che rassicura i moderati è anche la ribadita ambizione di fondare il «grande partito dei conservatori italiani», come ha annunciato la Meloni durante la kermesse milanese. Questa aspirazione, FdI l’ha voluta sottolineare anche nella coreografia dell’evento, in stile repubblicani Usa. Aspettiamo però di saperne qualcosa di più. Soprattutto aspettiamo di sapere come la Meloni intenda tradurre in manifesto programmatico una tradizione culturale che in Italia vanta illustri pensatori e scrittori come Giuseppe Prezzolini, Gaetano Mosca, Vilfredo Pareto, Leo Longanesi, Giovannino Guareschi ma nessun precedente storico-politico. Da Milano non sono pervenute significative indicazioni in tal senso.
A evidenziare l’ambizione governista e moderata dell’unico partito di opposizione c’è inoltre l’”arruolamento” di autorevoli figure estranee alla storia della destra come Carlo Nordio, Giulio Tremonti, Marcello Pera. In veste di intrigato osservatore, s’è fatto vedere alla conferenza di Fratelli d’Italia anche Luca Ricolfi. Non si tratta certo di personaggi di primo pelo e attendiamo l’arrivo di altri «uomini giusti». Però è già qualcosa, un inizio che ascia sperare i Meloni boys. .
Al dunque, possiamo considerare un successo la conferenza milanese di FdI. Ma questo solo se ci limitiamo all’operazione-immagine e al braccio di ferro con gli “alleati coltelli” rappresentati dalla Lega e da Forza Italia. Essere riusciti a sbarcare in forze nella “capitale” del Nord produttivo e a tenere su di sé i riflettori puntati per tre giorni sono cose che erano impensabili fino a qualche tempo fa.
Se però dalla forma passiamo alla sostanza e se dall’immagine passiamo ai contenuti, questa kermesse meneghina non c’ha detto nulla di nuovo rispetto a quello che già sapevamo di Fratelli d’Italia. Ci sono due grossi nodi che il partito della Meloni deve assolutamente sciogliere, se vuole soddisfare la sua ambizione di rappresentare il punto di forza di un futuro (prossimo) governo italiano.
Il primo nodo riguarda l’Europa. La Meloni sé scrollata di dosso la polvere dell’euroscetticismo. «Siamo più europeisti di tanti Soloni di Bruxelles». Ma non è andata al di là delle solite richieste di una politica estera comune e delle lamentazioni dell’«ingerenza americana» che è colpa dell’insipienza europea. Ci vuole ben altro per rassicurare l’opinione pubblica che conta nel Continente, tutta gente che vuole sapere il pensiero della Meloni sulla revisione del patto di stabilità, sui trattati europei, sul Pnrr, su quello che accadrà all’uscita del tunnel del Covid, sui futuri rapporti con la Russia, su quella, più in generale, che potrebbe essere una nuova configurazione del progetto europeo dopo le crisi di questi anni. Se vorrà governare, FdI non dovrà spaventare i poteri europei, ma dovrà anche stare attenta a non deludere la sua base sociale, dalla vocazione tendenzialmente sovranista. Ci vorrebbe una proposta di alto profilo. Ma da Milano sono arrivati solo slogan.
L’altro punto dolente, forse il più serio, riguarda la storia, cioè il giudizio sul fascismo e il collegamento con l’eredità del post-fascismo. Anche a Milano Giorgia e i suoi hanno aggirato l’ostacolo, riproponendo il fattore generazionale. La leader è nata nel 1977 e la classe dirigente di FdI è formata prevalentemente da quarantenni: che c’entrano questi “ragazzi” con fascismo, neofascismo e post-fascismo? Giusto. Ma perché allora mantengono, nel logo, la vecchia fiamma che fu del Msi prima e di An poi, fiamma certo rimpicciolita ma pur sempre ardente? È una contraddizione grande come una casa, che nessuno nell’occasione milanese ha fatto notare, perché troppo interessati a pompare Meloni in funzione anti-Salvini. Ma possiamo stare pur certi che in un modo o nell’altro, tra qualche mese, quando la campagna elettorale entrerà nel vivo, qualcuno tirerà fuori il nodo-storia e potrà essere un problema per Giorgia, perché magari le verranno chieste dolorose “abiure” nei momenti più difficili.
Rimandare lo scioglimento di questo nodo, alla fine, non paga. Che farà la Meloni quando sarà il momento? Difficile dirlo, ma, più passa il tempo, più ardua sarà la soluzione.
Eppure una via d’uscita ci sarebbe. E, alla fine, non sarebbe neanche tanto duro imboccarla. Basterebbe solo riattivare il filo di collegamento tra il presente di Fratelli d’Italia e il passato di Alleanza nazionale, smettendola con l’assurda pretesa di rappresentare, FdI, la continuazione, in un altro contesto storico, della storia del Msi. Come se, nel frattempo, non ci fosse stata An, né ci fossero stati lo strappo di Fiuggi, con il conseguente addio alla “casa del padre” (1995) e la conferenza programmatica di An a Verona (1998), che decretò la fine dell’uso politico della storia.
Al dunque, Giorgia Meloni si potrebbe tranquillamente richiamare a quella stagione della politica italiana che, a cavallo del Millennio, pose fine alla contrapposizione fascismo-antifascismo come variante della lotta politica in Italia.
Perché FdI non lo fa? Per un semplicissimo motivo: quella stagione porta il nome di Gianfranco Fini. E la Meloni evidentemente non se la sente o, per meglio dire, non ha il coraggio di riproporre una figura e una storia che considera scomode per sé e per la legittimazione del suo consenso.
Questo vuol dire che le ambiguità di FdI con la storia sono in definitiva il frutto di un tormento tutto interno alla destra italiana. Un tormento che deriva dalla coscienza infelice di questa destra e dai recenti traumi che essa non ha ancora superato.
La rimozione è nemica della coscienza storica. E, senza coscienza storica, ben difficilmente la destra di Giorgia Meloni potrà effettivamente diventare destra di governo.