Inutile nasconderlo, la politica è l’ultima guerra tra persone, tra partiti, sia dentro, sia fuori la stessa alleanza.
Ad esempio, nelle schermaglie tra Fi e Fdi, a proposito delle dimissioni della Montaruli (dopo la sentenza di condanna definitiva per la “Rimborsopoli” piemontese), sembra di rivedere e rivivere gli stracci che ciclicamente sono volati tra azzurri e An durante i vari governi Berlusconi.
Scontri all’ultimo sangue, espressione di interessi contrapposti e in primis, di un Dna incompatibile: Fi è figlia dell’ultra-garantismo, sempre in bilico tra impunità e stato di diritto (l’eterna vicenda del Cavaliere); mentre Fdi è erede della tradizione giustizialista-legalitaria del Msi, nata sulle rovine di Tangentopoli.
E anche ora queste differenze o fantasmi, sono rispuntati nella polemica dell’ultimo fine settimana che ha investito la maggioranza.
Giorgio Mulè, sottosegretario della Camera, appena appresa la notizia delle dimissioni della sottosegretaria all’Università, ha sottolineato in modo sorprendente un concetto che ha fatto saltare i nervi al partito della Meloni: “Montaruli e il suo partito devono trarre le conseguenze, capire cosa fare e valutare se si mette in imbarazzo il governo”.
Due errori di comunicazione non da poco. Primo, è andato a interferire sulle vicende di un altro partito anche se alleato, nel nome della moralità collettiva del centro-destra. Secondo, ha confermato la tesi da sempre sostenuta dalla sinistra e cioè, che Fdi è composta per la gran parte da una classe politica di incompetenti e impreparati, nonostante lo slogan elettorale del 25 settembre scorso (“Pronti a governare”), vincente alle urne.
Apriti cielo, la reazione dei “fratelli-coltelli”, diramata da fonti del partito, non si è fatta attendere: “Che provocatorie insinuazioni vengano da un personaggio come Mulè, che di pregiudicati eccellenti nel suo partito ne vanta più di uno, è intollerabile”, aggiungendo una stilettata rivolta proprio al Grande Capo: “Visto che anche lui è un condannato in via definitiva e ciò nonostante resta il deus ex machina degli azzurri”.
Insomma, “partito-azienda contro partito-militanti”. Segno che il tema della formazione e selezione della classe dirigente è un vulnus non del tutto risolto per tutti e due.
Ma in realtà le polemiche non sono quelle che sembrano.
Dentro un governo a trazione-Meloni che continua a vampirizzare i suoi partner (un tempo centrali, oggi marginali nelle scelte), e ad aumentare nei consensi e nei sondaggi, le fibrillazioni intestine è ovvio che si ramifichino e accentuino.
Fibrillazioni che assumono varie forme, considerando pure l’esito delle regionali che hanno decretato la tenuta della Lega e di Fi, pur se ridotte numericamente.
Ed ecco che allora, la politica estera ritenuta eccessivamente prona agli Usa e a Bruxelles, da parte della premier (specialmente la questione delle armi), per Fi diventa un argomento da sfruttare (le famose frasi anti-Zelensky di Silvio), per lesa maestà atlantista (il ruolo storico degli azzurri che la Meloni ha scippato). Oppure, il superbonus, altro elemento conflittuale, con Tajani e i suoi che chiedono aggiustamenti al decreto legge. Ultima interferenza di una lunga serie. Ed ecco che Salvini, dal canto suo, non perde occasione per estremizzare la guerra contro le Ong e l’immigrazione clandestina.
Infatti, se Fdi dentro il perimetro di “sovranismo-pragmatico” si sta delineando come il “partito del gambero”: annuncia, rompe mediaticamente gli schemi, e poi si corregge su troppe cose (dal decreto rave, al Pos, ai contanti, alle accise), Fi è definitivamente il “partito degli emendamenti” (delle correzioni in corso d’opera) e la Lega il “partito degli annunci”, per rinsaldare la leadership del Capitano.
Tutto ciò snerverà o rafforzerà la Meloni?