Il declino del Capitano: le spine di Salvini nel governo e nella Lega

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Non è un momento felice per Matteo Salvini, stretto fra un’azione di governo che lo vede sempre più ai margini, e le prese di posizioni sempre più marcatamente controcorrente del suo principale avversario interno, il governatore del Veneto Luca Zaia.

Dopo il deludente risultato delle elezioni politiche, di fronte all’insofferenza del partito e alla richiesta di un cambio al vertice, il Capitano chiese un anno di tempo per poter risollevare le sorti della Lega attraverso un’azione di governo forte ed incisiva. La speranza era quella di ritornare ai fasti del governo gialloverde quando il presenzialismo di Salvini ministro degli Interni aveva portato il Carroccio a sfiorare il 35% alle europee del 2019.

E difatti, già dai primi giorni di governo, sembrava proprio che il leader della Lega fosse intenzionato a tornare al centro della scena. Le prime settimane furono infatti piuttosto travagliate, complice anche il malcntento di Salvini per aver visto sfumare la possibilità di tornare al Viminale, obiettivo sempre smentito ma segretamente coltivato. La Meloni si è così trovata costretta più volte ad arginare l’interventismo dell’alleato, come ad esempio sulla proposta di innalzare il tetto del contante a 10mila euro nella legge finanziaria, con forti dubbi nella maggioranza ma soprattutto in Europa.

Stesso copione sull’immigrazione, culminato con lo scontro sulla Ocean Viking, quando fu proprio l’intervento di Salvini, quel “vittoria” urlato ai quattro venti di fronte alla disponibilità della Francia ad accogliere la nave carica di migranti, a provocare un incidente diplomatico con i cugini d’oltralpe e a mettere in seria difficoltà la Meloni che era riuscita con fatica a trovare una sponda da Macron.

E’ però evidente come il vicepremier sia sempre più alla ricerca di spazi di visibilità che l’azione di governo non sembra ritagliargli.

Sulla politica economica è ormai sotto gli occhi di tutti come si sia creato un asse privilegiato fra la premier e il Ministro dell’Economia Giancarlo Giorgetti, una sintonia che si è ben evidenziata sia sulla legge di Bilancio che oggi sulla delega fiscale. Insomma è il numero due del Carroccio a dirigere la politica economica nel nome degli interessi degli imprenditori del nord, ed è sempre lui a mediare con la premier per portare avanti le istanze care alla Lega. Ed è un dato di fatto di come Giorgetti sia in piena sintonia con Meloni anche nel disinnescare le mine messe dalla maggioranza sul cammino del governo, comprese quelle provenienti dalla Lega.

Non va meglio sul fronte dell’immigrazione, dove a rubare la scena a Salvini e ad interpretare quella linea dura che ha fatto la fortuna del Capitano quando stava ai vertici del Viminale, è il ministro dell’Interno Matteo Piantedosi, tecnico vicino alla Lega, che nonostante gli attacci delle opposizioni per le sue dichiarazioni giudicate inopportune e disumane sul naufragio di Cutro, ha saputo finora gestire la situazione con decisione. Anzi, proprio quelle dichiarazioni tanto criticate a sinistra, sono invece state apprezzate a destra, dove il pragmatismo e il realismo sono considerati prioritari rispetto ad un umanitarismo di facciata, che alla fine serve soltanto per la polemica e la strumentalizzazione politica. Non è un caso che nei giorni delle polemiche su Cutro, Salvini ha tentato in tutti i modi di riguadagnare la scena prendendo le difese della Guardia Costiera accusata di non essere intervenuta, e soprattutto rilanciando la battaglia per ripristinare i decreti sicurezza adottati quando era ministro nel Conte 1 e poi cancellati dal successivo governo giallorosso. Ha rischiato pure di trovarsi commissariato dal collega della Difesa Crosetto, visto che la Meloni voleva affidare il coordinamento delle operazioni dei salvataggi in mare alla Marina militare, ma poi la misura è saltata e il leader del Carroccio ha potuto pure beneficiare di qualche titolo sui giornali, in cui si è scritto che sul decreto Cutro alla fine ha vinto lui. Peccato che a giudicare dai sondaggi il vantaggio sia stato minimo.

Del resto Salvini appare sempre più combattuto fra il desiderio di emergere, anche a costo di entrare in conflitto con la Meloni, e la necessità di non creare troppe fibrillazioni all’esecutivo. Stesso identico scenario che si era riproposto ai tempi del governo Draghi, quando però Salvini non era ministro e poteva pure permettersi di fare il leader di lotta e di governo. Strategia che però non ha affatto portato voti al Carroccio, anzi ha finito con lo spostare il consenso sempre più in direzione di Fratelli d’Italia. Oggi Salvini sta al governo, è il vice della Meloni, ricopre l’incarico di ministro delle Infrastrutture e deve accontentarsi di rilanciare sul Ponte di Messina come è avvenuto nelle ultime ore, o tentare qualche prova muscolare destinata però a durare lo spazio di qualche titolo sui giornali.

Ad esempio sa perfettamente il leader della Lega come gran parte del suo elettorato sia contrario alla guerra in Ucraina e all’invio di armi a Kiev, ragione che lo ha spinto a sostenere la posizione della Meloni di totale appoggio a Zelensky ma senza rinunciare ai distinguo: e così dopo il No secco alla partecipazione del presidente ucraino al Festival di Sanremo, ha pure provato a rispolverare un retroterra pacifista, dichiarando che l’invio di armi comunque non serve a far cessare la guerra e che è necessario riattivare i canali diplomatici. Posizione però che è risultata decisamente sbiadita e poco convincente se paragonata alle dichiarazioni del Berlusconi anti-Zelensky e alle battaglie ultra pacifiste del Movimento 5Stelle. La realtà è che Salvini vorrebbe fare il filo putiniano come Berlusconi per far contenti i suoi elettori, sapendo però di non essere nelle condizioni di esporre l’Italia all’accusa di inaffidabilità nei confronti dell’Europa e dell’Alleanza Atlantica. Se già le dichiarazioni di Berlusconi che non ha nessun ruolo nel governo hanno provocato un caso internazionale, figurarsi cosa potrebbe succedere se fosse un ministro del governo a dichiarare che se non si trova la pace è tutta colpa del presidente ucraino.

Ma se i problemi maggiori arrivano dal governo, non meno difficile è lo stato dei rapporti interni al Carroccio. Se negli ultimi giorni la Lega ha gioito per l’intervento del Prefetto di Milano che ha bloccato le trascrizioni delle adozioni gay da parte del Comune, ecco che proprio dal Veneto, principale roccaforte leghista, è arrivata una significativa svolta sul fronte dei diritti Lgbt. Il governatore Luca Zaia, da molti indicato come possibile sfidante di Salvini alla segreteria federale, ha annunciato l’apertura di un reparto per il cambiamento di sesso nel Policlinico universitario di Padova. Zaia ha parlato di “atto dovuto”, quindi di una decisione che sotto certi aspetti non poteva ostacolare, ma a molti è apparsa evidente l’operazione di smarcamento dalle posizioni tradizionaliste del leader, che ha fatto del contrasto alle rivendicazioni Lgbt il suo cavallo di battaglia. Del resto già ai tempi del dibattito sulla Legge Zan, il governatore veneto aveva assunto una posizione decisamente controcorrente sostenendo che il tema del contrasto all’omofobia doveva essere trattato senza preconcetti ideologici e in qualche modo aprendo al confronto. Evidente quindi l’obiettivo di portare alla luce l’esistenza di una Lega diversa, non soltanto sul piano del sovranismo, ma anche su quello dei diritti civili, linea insomma più liberale e meno conservatrice.

Ma non è tutto, perché sempre dal Veneto è arrivata anche la richiesta di poter accogliere più immigrati da impiegare come manodopera, visto che ci sono interi settori produttivi dove la necessità di lavoratori stranieri è considerata fondamentale per poter garantire lo svolgimento di quelle mansioni che gli italiani, per varie ragioni, non vogliono più svolgere. Un chiaro segnale di come anche le regioni di destra e leghiste guardino all’immigrazione non soltanto in un’ottica di sicurezza e dunque in versione negativa, ma anche e soprattutto di opportunità economica.

Altro terreno su cui il Carroccio si sta giocando la partita è la battaglia sull’autonomia differenziata, richiesta a gran voce dai governatori del Nord, dai leghisti Zaia e Fontana fino al centrista Toti, ma che comunque la si pensi va nella direzione di un ritorno alla Lega delle origini, la Lega federalista ed indipendentista, non certo quella nazionalista e sovranista creata da Salvini. Una battaglia che il Capitano è costretto a portare avanti e a sostenere perché così vuole l’elettorato del Nord, ma che sa benissimo andare in direzione contraria ai suoi interessi politici, nel momento stesso in cui andrà a rafforzare il potere dei governatori che sono oggi i suoi principali competitor.

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