Macron l’ha scampata bella. La mozione di sfiducia, presentata dal piccolo gruppo Liot, non è passata per una manciata di voti, nove. Era quella potenzialmente più pericolosa perché capace di aggregare un fronte trasversale di oppositori alla riforma delle pensioni imposta da Macron: da Marine Le Pen a Jean-Luc Mélenchon, passando per i malpancisti Républicains.
Monsieur le président ha però poco da festeggiare. Il suo profilo politico esce fortemente ridimensionato da questa prova di forza. Il fronte sociale-sindacale di opposizione al provvedimento non intende affatto disarmare, tant’è che già nella serata di ieri sono ripresi, in modo assai violento, gli scontri in piazza nella capitale. Parigi brucia, insieme al resto della Francia.
Tutto questo mentre si preparano un referendum abrogativo e un ricorso alla Corte costituzionale francese (il Conseil constitutionnel). Ricorrendo all’articolo 49 (comma 3) della Carta francese (che consente l’approvazione di un provvedimento senza andare al voto parlamentare) Emmanuel Macron ha forzato al massimo le regole della democrazia, perché un tale istituto è stato pensato solo per particolari situazioni di emergenza. Cosa che non si può certo dire della legge voluta dal presidente. In questo modo, Macron si presenta ai francesi (e tale impressione rimarrà sicuramente indelebile) come il campione della tecnocrazia più proterva e più lontana dalla sovranità popolare.
A questo punto non è esagerato affermare che in Francia si è aperta una fase di emergenza democratica, destinata ad avere ripercussioni anche in Europa. E questo perché la massima istituzione rappresentativa di uno dei Paesi-pilastro dell’Ue si ritrova investita da una forte ondata di delegittimazione politica.
Macron potrebbe risolvere il problema se adottasse la stessa, saggia exit strategy seguita a suo tempo da Jacques Chirac, che congelò un’altra riforma impopolare, sul contratto di primo impiego, nel 2006. Consentirà una cosa simile , nel 2023, la grande tecnocrazia finanziaria all’attuale presidente transalpino?
Ma, al di là di come evolverà l’emergenza democratica esplosa ieri sera a Parigi, il caso francese offre comunque due interessanti lezioni: una all’Italia, l’altra all’Europa. E questo avendo particolare riguardo alla questione previdenziale e a quella dell’austerità nella spesa pubblica.
Per quello che concerne il nostro Paese, colpisce la sproporzione in materia di pensioni rispetto alla Francia. I nostri cugini “transalpini” sono stati sul punto di far cadere un governo e si apprestano comunque a proseguire un’imponente protesta sociale solo al fine di contrastare un riforma delle pensioni che da noi farebbe invidia a tutti. I francesi non vogliono andare in pensione a 64 anni (attualmente ci possono andare a 62), mentre in Italia, in base alla riforma Fornero, si va a riposo a 67 anni.
Siamo quindi messi decisamente male rispetto ai transalpini. I francesi possono permettersi di ribellarsi a una legge, quella voluta da Macron, che li porterebbe in ogni caso a rimanere al di sotto della media europea in fatto di età pensionabile (64,4 anni), mentre noi siamo, dal 2012, quasi tre anni sopra questa media.
Perché questa tremenda sperequazione? Per gli apologeti del rigore e dell’austerità di bilancio dipende tutto dal diverso rapporto tra debito pubblico e Pil, assai più pesante in Italia (150%) che in Francia (113%). Questo confronto dice certamente molto, ma non dice tutto, perché non si può ridurre il problema previdenziale a un mero fatto contabile: la vera e più profonda differenza tra noi e i francesi sta nel sistema politico, oltre che naturalmente nella mentalità diffusa e nella diversa percezione dell’intangibilità (o meno) dei diritto sociali.
Proprio un sistema teoricamente più “decisionista” di quello italiano , come il semipresidenzialismo francese, si dimostra, all’atto pratico, più sensibile alle esigenze sociali rispetto alla nostrana repubblica parlamentare. Il presidente Macron, il “sovrano repubblicano”, fatica tremendamente a fare quello che un premier “tecnico” come Mario Monti fece in due settimane alla fine del 2011, come lo stesso Monti oggi, gongolante, ricorda. Ecco che cosa l’ex premier ha scritto lunedì 20 marzo sul “Corriere”: «Una piena contrapposizione tra maggioranza e opposizioni, come si osserva spesso negli Stati Uniti e in Francia – le due più collaudate repubbliche presidenziali – rende quasi impossibile trovare quel consenso su misure necessarie e urgenti in situazioni di emergenza, che in repubbliche parlamentari come la Germania o l’Italia è stato più volte possibile ricorrendo a governi di grande coalizione o di unità nazionale».
Non volendolo, Monti ha gettato la maschera: i governi che sono emanazione della sovranità popolare sudano di più a imporre leggi antipopolari, a differenza invece degli esecutivi “tecnici”, che l’ex premier bocconiano chiama pudicamente “governi di grande coalizione o di unità nazionale”. Da ciò discende una importante conseguenza: le istituzioni ispirate al “primato” del Parlamento sono di fatto le più esposte alle incursioni delle tecnocrazie. Poi , come sta succedendo oggi in Francia, si può verificare egualmente una emergenza democratica anche nei sistemi ispirati al “decisionismo”. Però la differenza sta nel fatto che, in quest’ultimo caso, lo sbrego alle regole democratiche è palese. E tutti possono legittimamente protestare. Invece, nel caso di metodi antidemocratici in regimi parlamentaristici, lo strappo è occulto e facilmente mistificabile in nome dell’ ”emergenza” . Non è una differenza di poco conto.
Per quello che invece riguarda l’Europa, il caso francese pone in modo drammatico il problema dei tagli alla spesa sociale in nome dell’austerità e dei parametri Ue. La vasta ribellione in atto nella seconda potenza economica europea dimostra clamorosamente, davanti all’opinione pubblica continentale, che non si può più continuare a colpi di diktat e di intimidazioni da parte delle oligarchie di Bruxelles e dei poteri finanziari nordeuropei. Sta a questo punto a Macron trarne le dovute conclusioni. Insistere sull’austerità interna senza nemmeno battersi per un cambiamento delle regole europee potrebbe esporlo a gravissime conseguenze politiche, tanto più che il presidente non può realmente contare su una vera maggioranza in Parlamento. In queste condizioni, potrebbe accadere che si affermi prima o poi in Francia una inedita maggioranza “sovranista” ed “euroscettica”, ancorché trasversale. Non è una possibilità remota, tenendo conto della inesauribile fantasia politica dei transalpini. E di popoli latini in genere.
Intanto Parigi brucia. E qualcosa pure significa, non solo per i francesi ma per tutti gli europei.