La Meloni vuole governare? Ecco i consigli degli intellettuali di corte

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Giorgia Meloni è sulla buona strada per essere accettata dall’establishment come possibile premier. Però deve fare un «piccolo strappo identitario». Che cosa le costa, in fondo?

Cominciano ad arrivare alla leader di FdI consigli e raccomandazioni da parte delle firme prestigiose che svelano quotidianamente al popolo gli arcani della politica. Una volta li avremmo chiamati “intellettuali di regime”, per via della loro contiguità ideologica con il sistema di potere dominante nel nostro Paese. Oggi, che il termine regime è diventato politicamente scorretto, preferiamo la più antica e storica espressione di “intellighenzia di corte”. E tutto questo –sia chiaro-  nonostante che il termine “corte” presupponga a sua volta l’attività di un soggetto la cui esistenza è ufficialmente negata: il sovrano. Il fatto è che c’è sempre un qualcuno (perlopiù avvolto nel mistero) che decide in ultima istanza delle nostre vite. E allora ci corre l’obbligo di  precisare che, quando parliamo di corte,  ci riferiamo sempre alla “corte del sovrano occulto”, anche se in questo modo sconfiniamo nel “complottismo”. Che volete farci, oggi è così: se vogliamo dire le cose come stanno, siamo comunque costretti a violare i canoni della buona e affabile scrittura.

Ma torniamo alla Meloni. Accade che in questi giorni la Giorgia della politica sia oggetto di vero interesse da parte degli editorialisti più accreditati. È da tempo, per la verità, che la leader di FdI è trattata con attenzione e senza snobistica aria di sufficienza da parte di chi ragiona e scrive di politica. Solo che stavolta –ed è sintomatico che ciò avvenga all’indomani dei rovesci subiti dal centrodestra nei ballottaggi- le dotte analisi sono corredate da solerti indicazioni su quello che la Meloni dovrebbe fare e su quello che dovrebbe viceversa evitare se, nella prossima legislatura, le dovesse capitare di entrare a Palazzo Chigi dal portone principale.

Concita De Gregorio, in un pur velenosetto articolo uscito su “la Repubblica”  , le raccomanda di scegliere meglio i suoi candidati nelle città e di guardarsi dai «fascisti vecchi e nuovi che le stanno dietro».

Tutto sommato, nulla di particolarmente originale. E citiamo tale opinione solo per dovere di cronaca. L’articolo ideologicamente più pregnante è invece quello di Angelo Panebianco sul “Corriere della Sera”. È proprio il politologo dell’Università di Bologna a raccomandare alla leader FdI di operare quel «piccolo strappo identitario» di cui parlavamo all’inizio. Di che si tratta? «Dovrebbe riconoscere –scrive Panebianco- che, a differenza dei secoli passati, sovranità e interesse nazionale non coincidono». Idea di sovranità addio? E meno male che si tratta di un “piccolo” strappo…

L’articolo di Panebianco dice in realtà più di quello che il suo autore vuole dire. Dice in particolare che l’ideologia di potere, nella sua negazione dell’idea di sovranità, è andata molto al di là della semplice opposizione ideologica. È cioè giunta alla stessa cancellazione concettuale di tale principio. L’editorialista –che non è davvero l’ultimo arrivato nel campo degli studi politologici- lascia chiaramente intendere questo pensiero quando derubrica a piccola cosa, la cui rinuncia è appunto un “piccolo strappo”, l’idea di sovranità.

Non solo, ma quando Panebianco relega ai «secoli passati» il valore della sovranità, nega la stessa storia politica del Novecento, anche e soprattutto quella che va dal secondo dopoguerra agli anni Novanta. In questa storia, la sovranità, con buona pace del professore bolognese, è in realtà assai presente. E presente, non nella forma cruenta del potere di uno Stato europeo di muovere guerra ad altri Stati, bensì in quella, socialmente benefica, del controllo politico della moneta, una possibilità che ha permesso uno sviluppo senza precedenti del livello di vita dei popoli europei. Per un certo periodo, che è ricordato come il “trentennio glorioso”, dalla fine degli anni Quaranta alla fine dei Settanta, le politiche sociali si sono ispirate al pensiero di John Maynard Keynes, con risultati che ancora ricordiamo. E rimpiangiamo.

Ed è proprio questa sovranità, la sovranità sulla moneta, che i liberisti come Panebianco vedono come il fumo agli occhi. Lo sapevamo già, certamente. Il punto è che non pensavamo davvero che arrivassero a simili livelli di radicalità. Evidentemente le opinioni di Panebianco, come di altri autori neoliberisti, risentono molto di quel clima di “post-politica” e di “post-democrazia” che si è instaurato, in questi ultimi anni, nella società dell’Europa.

Un altro dato, anch’esso involontario, rivelato dal politologo bolognese è a suo modo clamoroso: l’identità del partito di Giorgia Meloni, la sovranità appunto, risulta comunque più forte di quella del Pd. La formazione guidata da Enrico Letta,  deriva oggi i suoi «elementi identitari» da questioni come lo «ius soli o il sostegno al Lgbt», profili della contesa politica che, per stessa  ammissione di Panebianco, «non incidono sul gioco degli interessi qui e ora».

Ma, di grazia, se la politica non deve avere tra i suoi principali obiettivi quello di incidere sugli interessi collettivi, di cosa mai si dovrebbe occupare? Per i professori liberisti la risposta è semplice: si deve occupare di argomenti sovrastrutturali e marginali, battaglie che dirottino l’attenzione dei cittadini sull’insostenibile leggerezza del vivere moderno. La politica non come creazione, ma come ricreazione.

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